Il ‘modello emiliano’

Nella seconda metà  del XX° l’Emilia Romagna è stata un laboratorio di prima grandezza nel campo del rapporto tra pianificazione territoriale e programmazione economica.

Usiamo ancora quei termini (piano e programma) di antica reminescenza del ‘socialismo in un paese solo’, perché sono stati e sono tuttora le facce della medaglia della governance, che comunque anche oggi incombono nelle politiche di governo di ogni Istituzione Pubblica, soprattutto di quella Regionale. Quella medaglia è stata poi definita ‘modello emiliano’.

Quel modello è stato per quasi tutto questo secondo dopoguerra un riferimento per studiosi, urbanisti, economisti, altre regioni, governi, partiti, pubblici amministratori, anche di avverse fonti politiche. Da cosa era contraddistinto? Da una gestione virtuosa del binomio capitale-lavoro per un verso, e per altro verso dal binomio cittadino-Istituzione.

La questione che si poneva nel secondo dopoguerra in queste terre padane, vivaci ed esuberanti, era, con una vulgata tutta nostra, come conciliare il governo territoriale della qualità  della nostra vita, gestito dalle nuove Istituzioni democratiche (pratica di governance) con il conflitto di classe (capitale/lavoro). In Emilia, come forse nei paesi a gestione social-democratica dell’Europa del nord, questo meccanismo si è contraddistinto per una forte capacità  di ‘composizione’ dei termini suddetti, attraverso l’autorevolezza delle Istituzioni (forme di governo strutturate e stabili, ma anche e soprattutto selezionate e elette democraticamente) e per altro da una altrettanto forte redistribuzione di risorse e di impieghi dall’impresa al sociale. Ciò ha consentito un equilibrio di costi nel sistema industriale, che a sua volta ha prodotto forti strutturazioni locali di tessuti imprenditoriali come i distretti, in quasi tutti i settori, dal tessile al meccanico, dall’agroalimentare al turismo della costa.

In questo ‘stato sociale’ del governo dei due binomi, si sono prodotte grandi opzioni e intuizioni: le prime lungimiranti politiche infrastrutturali degli anni ‘60[1], la realizzazione dei servizi sociali al cittadino (scuole per l’infanzia, sanità , trasporti, ecc.) la forte propensione al governo locale dei sistemi ambientali e della ‘sanità  sociale’ dei centri urbani e del territorio, e così via.

Le politiche del riequilibrio (anni ‘70) hanno in questo senso prodotto trasferimenti di risorse dalle aree forti a quelle deboli nel tentativo di rendere omogeneo (ma anche con pericoli di omologazione) lo sviluppo. Una seconda fase (anni ‘80 e primi ‘90) si è caratterizzata con il cosiddetto Sistema Metropolitano Policentrico. Il tentativo cioè di dare per acquisito un livello comune di sviluppo e dunque la possibilità  per ognuno di qualificarsi in un quadro comune certo, accentuando l’autonomia. Uno per tutti è ancora lo slogan ‘Ferrara città  d’arte’, ovvero ‘Ravenna città -porto’, o ancora ‘Bologna-gate’[2].

Deficit di analisi e di tesi

In tutta questa vicenda, virtuosa e progressiva, si sono comunque registrate diverse deficienze di analisi e di azioni istituzionali, a fronte di processi di sviluppo del sistema dei rapporti di produzione capitalistici dell’area europea, ma anche del pianeta in generale. E’ infatti a partire dai primi anni ‘90, che possiamo datare i primi segnali di questa incompiutezza, nonché una progressiva rinuncia a pensare il futuro in sede locale. Il modello infatti aveva prodotto nuovi terreni di competizione, assolvendo peraltro al compito originario di superare la ricostruzione, di avviare processi di sviluppo ed emancipazione civile e democratica, di realizzare, perché no, la sostanziale piena occupazione e un progressivo benessere di massa. Questa nuova condizione, invidiata (!) da altre realtà  regionali, anche europee, che si affacciavano alla ricerca di copie autenticate da portarsi a casa, non ha trovato una capacità  di altrettanta governace e dunque a partire da quegli anni si è riscontrata una certa divaricazione di trends, di ritmi, di velocità  tra Istituzioni e società  regionale. Potremmo affermare che ancora oggi siamo alla rincorsa dei problemi da risolvere, piuttosto che davanti agli stessi, governandone una ricomposizione progressiva.

In cosa consisteva sostanzialmente, a nostro avviso, la deficienza di analisi e riflessione di quegli anni, e tuttora presente, sempre secondo noi, potremmo sintetizzarlo come segue:

una marcata difficoltà  a decodificare processi di intensificazione e densità  di accentramento insediativo ad esempio della Via Emilia, cioè di uno degli assi principali del sistema europeo della rete;

e ancora, a comprendere quali conseguenze la fenomenologia della saturazione avrebbe comportato (insediativa, industriale, demografica, ambientale, logistica, ecc.): fenomeno che caratterizza fasi del ciclo economico-sociale, in particolare nelle aree più mature del capitalismo avanzato, e dunque in aree molto limitate del mondo (Europa centrale, costa orientale nord-americana, aree puntuali del terzo mondo);

una difficoltà  infine a ricomporre in un quadro unitario realtà  anche positive, che in quegli anni si erano manifestate, animazioni locali che avevano prodotto nuovi protagonismi, pur articolati e tuttavia di una qualche rilevanza ai fini di ragionamenti per il futuro (la Romagna, Ravenna, Ferrara, Piacenza, l’Appennino, ecc.), ma che non hanno appunto trovato adeguati spazi.

Ribaltando la questione, potremmo cioè affermare che non si è adeguatamente inteso con politiche appropriate in sede regionale che:

la Via Emilia non è questione emiliano-romagnola;

la saturazione dei sistemi insediativi presuppone idee di riconversione complessa, dei beni e dei sistemi stessi;

che la saturazione non è fenomeno generale che coinvolge tutti ma esclusivo di aree ben determinate della zona matura dell’Europa soprattutto e che in tale esclusività  (cluster sui generis!) l’Emilia è tutta dentro[3];

che in questo quadro le aree regionali più deboli restano deboli, soprattutto nei momenti di crisi e ancora di più nei ‘passaggi’ di fase del ciclo.

Complessivamente, il ‘modello emiliano’ ha senz’altro prodotto una ricchezza generale, ha ottenuto indubbi successi, senza i quali non sarebbe individuato come ‘modello’. La nostra è una delle regioni d’Europa più forti per PIL, occupazione, civismo e coesione sociale, saldezza e salute del sistema industriale, e perché non dirlo, affermazione di un forte sistema di quelle imprese cooperative che si distinguono anche in fasi espansive e mature del ciclo del capitale, eppure in quelle depressive, prospettando una propria vivacità  a dispetto di ogni retorica sull’argomento[4].

In questo quadro sintetico restano, dalla seconda metà  degli anni ‘90, alcuni problemi sul tappeto emiliano del modello di governance che riteniamo tuttora irrisolti. Vediamo in sintesi quali:

il globale, cioè la dimensione planetaria di ogni risposta che può darsi a ogni problema (immigrazioni, cambio stabile delle moneta, energia, ambiente, trasporti e ICT, TLC, eccâ¦);

la ‘saturità ’, già  detta, del sistema insediativo. Aggiungere non si può più. Dunque non si può crescere, ma bisogna sviluppare conoscenza per qualificare, dunque vi è una forte necessità  di innovazione nelle pratiche di pianificazione dello sviluppo urbano e delle dinamiche di occupazione e uso del territorio regionale;

nuovi livelli istituzionali che si impongono nella gestione, per rendere efficaci le politiche di governo (l’euro, l’UE, l’allargamento, il Mediterraneo, l’est meridionale europeo e il medio-oriente, il dopo-dopo URSS);

il debito pubblico allargato, che non conosce alcun tipo di contrasto strategico, ma solo contingenti provvedimenti. Tale fenomeno anche a livello locale diventerà  uno dei primari elementi di discrimine della capacità  di governo e verso il secondo decennio del XXI°, appare sempre più come ‘la’ questione che può anche incrinare i rapporti democratici di coesione;

i rischi conseguenti di declino. Cioè di progressiva perdita della ricchezza fin qui cumulata, soggetta a consumo per la sopravvivenza, piuttosto che per nuovo sviluppo.

Tutte queste e altre fenomenologie dello sviluppo economico da un lato e sociale dall’altro, rischiano di portare anche il modello emiliano a un livello di stress insopportabile, dunque di prefigurare punti di rottura irreversibili. Il modello tuttavia si è anche realizzato e ha dato i risultati positivi descritti sommariamente, anche in virtù di una notevole capacità  regionale di animazione del rapporto tra programma e piano. Da questo punto di vista l’elemento di forza è stata la corrispondenza, in taluni casi la coincidenza, tra Piano Regionale di Sviluppo (poi PTR) e legge urbanistica, cioè sistema di regole applicative del modello.

Oggi, anticipando qualche osservazione successiva, si può affermare che la Regione Emilia Romagna ha scelto (?) la diversificazione, ovvero il superamento di tale coincidenza tra le buone pratiche di programmazione e le buone pratiche di pianificazione. Altrimenti, diremmo che non è stata in grado di affrontare con sufficiente capacità  le sfide che il modello stesso aveva prodotto per una sua successiva ri-edizione. Tra il dire e il fare si è aperta una diaspora di governance.

Emilia – globale

Nell’impostare un nuovo quadro programmatico, cioè uno scenario condivisibile che offra sia le garanzie di mantenere in essere quel modello, e contemporaneamente impostare soluzioni alte e di spessore adeguato alle nuove questioni sul tappeto, si devono assumere e costruire necessariamente nuovi modelli, abbandonare superati schemi di località  del governo, e così via. E’ della fine del secolo l’approccio al nuovo PTR e il varo della nuova legge urbanistica. Forse un tentativo in tale direzione.

Già  si è detto che a metà  degli anni ‘90, uno schema di PTR che poi non ha riscontrato grandi successi, fu lo slogan di ‘Bologna-gate’. Cioè l’intuizione che si doveva spostare il terreno del governo delle contraddizioni dal locale al globale. Banale, ma vero.

Quell’idea non ebbe tuttavia grande appeal, perché forse metteva in discussione, non il modello in sé, ma il modo di governarlo, ponendo il problema di nuovi orizzonti della stessa pianificazione territoriale e della pratica della programmazione.

Ma quell’idea metteva in crisi anche una pratica politica di lungo corso, incentrata sull’autonomismo locale delle realtà  varie che l’Emilia Romagna si era in qualche modo conquistata con il disegno dei riequilibri territoriali dei sistemi policentrici e così via.

La mancata consapevolezza che ormai non è più possibile una politica locale per il governo regionale si è tuttavia, a nostro avviso, accentuata. In questi ultimi dieci anni, si sono accelerate e aggravate le caratteristiche di questa insufficienza.

Il quadro originario degli indirizzi del PTR, poneva in verità , con una propria autonoma consapevolezza il problema di affrontare questa nuova dimensione: assumere nuove analisi e nuovi schemi, come già  detto, che ormai datano alla metà  degli anni ‘90, elaborati soprattutto da scuole di geografia, di urbanistica e sociologia urbana, piuttosto che da una scuola strettamente definibile di urbanistica classica.

Scuole che hanno trovato sponde nelle analisi e nelle tesi di programmazione dello spazio comune europeo della Commissione, laddove i grandi scenari continentali del futuro prevedono appunto un sistema urbano europeo unico, integrato, solidale e soprattutto soggetto a tecniche di governance molto omologabili. Di qui le politiche di Interreg, Urban, Fondi strutturali, tutto ciò che ne è seguito con l’ultima tornata 2007-2013.

L’analisi dunque non è strettamente intellettuale, ma immediatamente politica. Politica in quanto affonda fin da subito i propri presupposti in azioni e programmi già  in atto che l’UE gestisce e che dunque si riverberano inesorabilmente sul sistema insediativo, sull’apparato industriale, sul sistema formativo, sulle politiche estere e così via, che l’Europa pratica già  oggi per sé e per i suoi paesi membri.

Il PTR nell’originaria versione, tentava di fare di questo scenario la condizione di partenza per formulare una ipotesi concreta di sviluppo locale, mettendosi in rete con l’Euro-scenario.

Si leggeva nei documenti preliminari del PTR (2003)

(â¦)

Per superare tale tendenza e offrire nuove prospettive ai territori periferici altrimenti destinati ad aumentare con l’allargamento dell’UE, è necessaria la creazione di zone dinamiche di integrazione costituite da sistemi regionali di facile accesso internazionale, capaci di mettere in rete città  e zone rurali di varie dimensioni ad esse collegate.

In questa prospettiva di sviluppo equilibrato e sostenibile di comuni e regioni, che pone l’Europa in una posizione di vantaggio rispetto ad altre grandi aree dell’economia mondiale, va collocato il ruolo di Bologna come centro di eccellenza del policentrismo europeo e del sistema regionale, che, nell’insieme, possono costituire una zona dinamica per l’integrazione dell’intera macro regione adriatica, dell’area sud orientale dell’Europa e, in generale, delle aree meridionali del mediterraneo nella prospettiva di sviluppo economico e sociale dello spazio europeo.

(â¦)

La possibilità  che effettivamente Bologna costituisca un nodo riconosciuto del policentrismo europeo e di importanti funzioni globali, è condizionata da un quadro di avvenimenti che comunque incideranno sulle trasformazioni dell’area bolognese e che derivano sia da fattori esterni all’area, difficilmente governabili alla scala locale e regionale, sia dalla capacità  della Regione e dei soggetti istituzionali locali di garantire un tessuto urbano di qualità  elevata, efficiente e coeso.

 

(â¦)

Rafforzare la capacità  del sistema urbano e territoriale regionale di agire simultaneamente su geografie differenti e su reti di diverso livello, e di elaborare strategie territoriali appropriate e coordinate fra questi livelli. Si tratta di agire: in uno spazio europeo generale di relazioni economiche, tecnologiche, informative a carattere globale; in uno spazio centro-europeo meridionale che si sviluppa per direttrici prioritarie (la direttrice meridionale europea est-ovest Lione-Pianura Padana-Lubiana, la direttrice adriatico-danubiana a nord-est, la direttrice adriatica a sud-est, la direttrice Tirreno-Brennero a nord) e nello spazio padano, nei quali il sistema regionale può svolgere un ruolo di leadership/partnership in ambiti molteplici (industrializzazione di base, infrastrutturazione, cooperazione in campo ambientale); nella euro-regione adriatica, in cui, su un orizzonte a più lungo termine a causa di protratti problemi a carattere politico-diplomatico, è possibile costruire uno spazio di cooperazione ‘naturale’ date le forti interdipendenze a carattere ambientale e trasportistico e le necessità  di integrazione economica e sociale; nello spazio appenninico, attraverso la strutturazione di una ‘politica di massiccio’ che superi una ‘politica di versante’ limitata ai confini amministrativi regionali.

Assumere nell’azione pubblica un’ottica di ottimizzazione dell’uso di risorse scarse, più che di espansione quantitativa. Ciò riguarda: le risorse infrastrutturali attuali (dall’uso delle infrastrutture stradali urbane alla separazione dei flussi di traffico interurbano); le risorse finanziarie energetiche, con riferimento ai loro effetti ambientali; le risorse di suolo; le risorse del patrimonio naturale e culturale.

Realizzare un sistema produttivo regionale integrato, in cui si affermi da un lato una migliore complementarietà  fra i saperi presenti sul territorio e, dall’altro, una migliore distribuzione delle interazioni e della mobilità .

Rafforzare la capacità  di Bologna di costituire un nodo riconoscibile della rete europea delle capitali funzionali, soprattutto nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione Europea che delinea una opportunità  di sviluppo per l’intero sistema regionale se sarà  capace di costituire tutto insieme un riferimento primario per l’integrazione economica e sociale della macro regione adriatica, della parte meridionale dell’Europa orientale e delle aree meridionali del mediterraneo.

(â¦)

 

Se queste erano le intenzioni, suffragate da una consapevole insufficienza dell’agire regionale e se dunque analisi e tesi erano in qualche modo presenti come tentativo di cercare il nuovo, innovare le pratiche, replicare il modello sulle nuove dinamiche, non si può altrettanto affermare che tali obiettivi abbiano trovato riscontro nei concreti provvedimenti e soprattutto in rinnovate pratiche di governante del PTR edizione 2010[5].

Il varo della legge 20 e le sue recenti correzioni, l’abbandono di uno schema di PTR con l’assunzione di obiettivi molto più limitati e di modesto profilo, nonché l’assenza di uno sforzo di riflessione sulla gestione della nuove pratiche di sviluppo europeo che derivano dal recente Quadro Comunitario e altro ancora, fanno dire che, appunto, tra il dire e il fare si è aperta la diaspora, ma soprattutto, non è scontato il successo delle buone pratiche. Tra il modello storico che pure ha funzionato ma oggi appare superato e la necessità  di governo dei nuovi e più complessi processi non appare cioè scontata la capacità  emiliana di corrispondenza.

In quali concrete condizioni non si è ottemperato al nuovo?

Si potrebbe affermare che la legge urbanistica n. 20 replica un modello tutto interno alla tradizione italiana, senza assumere una visione di assetto regionale. La legge infatti è rivolta a ridefinire le regole edilizie della trasformazione, assumendo un territorio regionale virtuale che non ha riscontri concreti, di vision, di senso di un futuro da immaginare[6].

 

Critica della ragion urbanistica

Una vera e propria ‘critica della ragion urbanistica’ in questi ultimi dieci anni non è mai venuta nè tanto meno si è affermata, nella cosiddetta cultura della pianificazione, né nella legislazione regionale di nuova generazione, neppure in quella emiliana.

La cosiddetta cultura urbanistica italiana si è infatti lasciata per un verso sopraffare dall’astrattismo di ‘macchine celibi’[7], e peraltro superare nell’analisi concreta di fatti concreti da una elaborazione di economia, sociologia e geografia urbane che proveniva da alcune ‘scuole’ nostrane, di diversa estrazione disciplinare.

Gli urbanisti di un tempo, architetti e gente che aveva a cuore il ‘disegno della città ’, cioè un governabile processo di sviluppo urbano ove il piano è architettura stessa e viceversa, pare non ci siano più. E’ inutile negare.

Una critica politica, da avviare senz’altro, e che deve essere raccolta e approfondita ma che non si vede in questo momento chi possa farla. E’ necessario cominciare a partire dagli ambienti degli operatori concreti del piano. Non vi è Istituto, Partito, Organismo, e nemmeno Scuola, ove ciò oggi sia ritenuto possibile. E’ anche questa una delle questioni che vede oggi dominante una egemonia di (non) senso verso la città , il paesaggio e il territorio.

Per un verso l’economicismo di maniera di questi anni e peraltro la critica all’incombenza della P.A. nei processi di sviluppo (!) del Paese, concorrono ad affermare una tendenziale incuranza dei temi dell’urbanistica. Da parte di forze, che spesso si sono auto-referenziate come attori di progresso, dunque pertinenti per promuovere ‘nuovi modelli di governance’ delle città , si è operata una ormai mostruosa costruzione normativa, accolta in quasi tutte le Regioni, per cui oggi ampi spazi di legittimità  e costituzionali ancora debbono essere colmati nelle stesse leggi, in continuo perfezionamento. Di fronte a questo stato di cose diviene ineludibile mostrare alcuni nervi scoperti delle esperienze regionali in atto, individuando una delle principali contraddizioni nello scarto tra tempo del piano e processo di trasformazione. Questo è uno dei nodi cruciali non solo nella pratica amministrativa di gestione, nell’ambito dunque della operatività  a valle del disegno di piano, ma cruciale anche e soprattutto poiché pone una questione generale di impostazione e per una riscrittura della legge urbanistica regionale (nel nostro caso quella emiliana). La questione è se non sia più congrua una legge che affronta pratiche di pianificazione per problemi e questioni che in ogni regione siano emergenti, e dunque si articoli per progetti piuttosto che per livelli di competenze, di ambito e giurisdizione e di conseguenza per pratiche che omologano territori che omologati non sono.

L’adesione di processi di trasformazione a tempi di governo degli stessi, che il piano dovrebbe garantire è in questo senso ‘il’ problema di oggi e del prossimo futuro, soprattutto in aree del Paese tra le più sviluppate d’Europa e del mondo, ove il tempo non è una variabile indipendente dal processo di sviluppo, ma anzi una sua componente essenziale.

Appare cioè debole, in termini disciplinari e culturali, una legge che replica un modello (del ‘42) ribaltandone le articolazioni e/o inserendovi aggiustaggi che la complicano, ma che in sostanza affronta un territorio virtuale e non reale. Non è riformista questa legge, essa è tutta dentro il modello in essere.

Un modello peraltro semplice, che ha consentito in cinquant’anni un (discreto) governo di processi semplici e proto-capitalistici, nel passaggio del Paese da uno stato agro-industriale a industriale tout-court. Oggi la questione appare molto più complessa.

A dieci anni ormai dal varo definitivo della L.R. 20 dell’Emilia Romagna, gli ‘aggiustaggi’ che la L.R. 6/09 opera appaiono terribilmente insufficienti e dare all’Emilia Romagna un rinnovato primato nelle ‘buone pratiche’ della pianificazione. Ormai quasi tutto il quadro legislativo regionale-locale italiano è più o meno allineato a un superamento del vecchio apparato strumentale di pianificazione e tutto teso a una forte vocazione alle pratiche ‘concertative’ con il privato. Ciò tuttavia non appare sufficiente. Già  la 20 non affrontava i nuovi orizzonti di sviluppo che il contesto europeo tendeva a intravvedere per i propri territori e per le ragioni del proprio sviluppo, di conseguenza auspicando nuove pratiche di governo territoriale(ambiente, saturazioni, processi di declino, diversificazione, immigrazione, debito pubblico, insosteniblità  del welfare, ecc.). Mi si può facilmente obiettare che così si rivendica una sorta di autonomia intellettuale della disciplina e che tale autonomia può avere un riscontro storico di verità  solo tramite la politica. Non nego che prima di immergersi in una verifica di verità , la disciplina debba costituirsi in una sua autonomia. Anzi è proprio ciò che possiamo contestare al varo della 20: l’assenza predominante di caratteri disciplinari urbanistici autonomi, come tecniche di supporto a una politica. La prima questione cioè che appare chiara nella approvazione della 20 è un passaggio da pratiche urbanistiche a pratiche ‘politiche’ nel governo territoriale. Questo fatto ha denotato proprio per l’Emilia (!) l’abbandono di un lavoro di ricerca di nuove tecniche che arricchissero l’urbanistica, intesa come disciplina utile a una politica (e non viceversa), abbracciando invece la politica tout court come tecnica capace di governare il piano (PSC). Fallace salto di presunzione che oggi appare in tutta evidenza. In realtà  la legge, anziché tentare di codificare nuovi ambiti giurisdizionali del governo territoriale, ha tentato di rinnegare il passato (1150/42) e di costituire una frontiera di novità  con nuove articolazioni (PSC, POC, RUE, ecc.). Tuttavia questo fronte ha mostrato le proprie insufficienze ben presto e tuttora le recenti correzioni non le risolvono, ma tentano un riformismo sui generis con una riattribuzione di pesi, per cui il PSC è sì la strategia, ma non ha valore conformativo (!). Questo non-valore la dice lunga sul dietrofront (politico), rimettendo in ballo il valore del POC (il nuovo vero PRG!), dunque ritornando a pratiche più conosciute e, forse, ritenute più utili al negoziato locale corrente.

Non si vuole prendere il toro per le corna!

Bisogna prendere atto di una generale insufficiente riflessione attorno alle nuove necessità  che l’urbanistica deve affrontare, e contemporaneamente del deserto politico che presiede tale insufficienza elaborativa, una volta molto articolata in consultazioni, confronti e ascolti sociali diffusi, prima di divenire atto deliberativo.

Sarebbe infatti utile consegnare alle nuove Amministrazioni Regionali un ruolino di marcia che con riferimento a tale questione si ponga l’obiettivo (politico) di ricostruire un filo diretto tra PTR, legge urbanistica, strumenti di settore, livelli di pianificazione da un lato, grandi questioni locali di piano dall’altro.

La Legislazione Regionale infatti appare quasi applicata a un territorio virtuale, non al territorio hic et nunc. Le questioni di governo dei processi non sono gli stessi per tutte le regioni italiane e tanto meno Europee. Anche con riferimento a tale aspetto, la legge emiliana ad esempio tenta di farsi nazionale, astenendosi da un contesto proprio, ove le questioni hanno una loro contingenza fisico-territoriale non omologabile ad altri pezzi dello stivale e contemporaneamente ambisce lanciare messaggi espliciti di riforma generale della vituperata 1150. Anziché operare su questioni che attengano un uso maturo delle contraddizioni capitalistiche del territorio, per come esse si manifestano nella valle padana, la legge si alza a giudizio generale sui principi e induce una riforma che tuttavia non è applicabile all’intero Paese così come qui si immagina. Anche questo è stato uno dei passi falsi che politicamente hanno impedito probabilmente l’assunzione piena di tale questione (una nuova legge urbanistica nazionale) nei programmi, veri e concreti e nelle relative azioni di governo, da parte della compagine di centro-sinistra. Tanto meno del centro-destra. In questo senso il danno politico è tale per cui il recupero di una cultura progressiva di amministrazione del territorio con rinnovate regole e strumenti appare molto ardua, dopo ben dieci anni di vigenza di tale quadro normativo, nonché delle sue imitazioni locali più o meno riuscite. Si tenga conto infatti che le Regioni Italiane sono state governate dal Centro Sinistra pressoché tutte da oltre un decennio, pur con alterne vicende. Ciò ha aggravato il danno sopra menzionato. Le grandi questioni di come riappropriarsi, ad esempio, della Via Emilia, ovvero la riconversione dei petrolchimici, oppure come affrontare processi di saturazioni urbane e metropolitane di territori come la costa turistica romagnola da Comacchio a Cattolica, la riorganizzazione dei distretti tanto celebrati negli anni ‘70 e ‘80, e via dicendo sono i nodi di cui la legge urbanistica emiliana non può più non farsi carico[8]. Ma è evidente che abbinare urbanistica a formazione dei bilanci locali, ridistribuire gli standards su parte dello stato patrimoniale e dare alla dimensione europea il respiro che le spetta in ogni pratica di governo dello sviluppo (non crescita) urbanistico, attiene i nuovi capisaldi di un ‘fare’ orientato a risolvere concretamente le questioni, piuttosto che ad autoreferenziare il proprio esistere tramite il negoziato POC su regolamenti edilizi, RUE, ecc…. Piuttosto infatti che una legge applicata a un territorio virtuale, l’Emilia e con esse le altre Regioni avrebbero avuto la grande occasione alla fine del XX secolo di immergersi in nuove elaborazioni ed esperienze di governo e pianificazione di questioni mature ed avanzate di tale spessore per questa formazione economico-sociale da poter, esse si, rappresentare ‘il modello’ di nuova generazione. L’urbanistica infatti non solo è norma di conformazione morfologica, ma è anche ‘disegno della città ’, disegno del territorio cioè del paesaggio, del paesaggio agrario, della non-città . Disegno qui non è sfizio dell’architetto, è immaginazione di un futuro dell’organismo urbano. Nel nostro contesto la legge va in altra direzione, tentando di difendere la città  dal suo sviluppo, dalle sue contraddizioni, che sono invece la sua forza e la sua vivacità , ciò che fa vivere la città  stessa. L’aridità  disciplinare e culturale ma anche di analisi storica che tale impianto rappresenta creerà  nuovi impasse di governo del territorio, poiché non è sufficiente il pragmatico concerto politico/istituzionale attorno al PSC a rappresentare volontà  condivise di sviluppo e nuovo benessere. C’è anche bisogno di strumenti che rappresentino tali auspici, di momenti ideali di confronto circa le opzioni programmatiche, che la legge non copre, riducendo appunto l’urbanistica a ciò che sopra ho cercato di descrivere. Ci troveremo infatti presto ad affrontare ancora perfezionamenti delle nostre normative ‘sempre a rincorrere i guai’, piuttosto che a prevenirli.


[1] Tutti ricordiamo lo ‘schema’ territoriale emiliano di progetto, della Consulta Regionale del ‘68.

[2] Cfs ‘La regione globale’, a cura della D.G. 7, giugno 1997 â Regione Emilia Romanga. Si veda anche: Regione Emilia Romagna docup obiettivo 2, 2000/2006.

[3] L’Emilia è tutta dentro questo fenomeno assieme alla Padania, diversamente dal resto del Paese. Cio’ avrebbe dovuto comportare una consapevolezza del ruolo nazionale che l’esperienza di governance locale poteva rappresentare.

[4] Anche a tale riguardo non è stata acquisita una sufficiente capacità  di replica del modello verso altre realtà  pur con le dovute declinazioni. Non a caso le Regioni Padane, in primis Lombardia, possono essere considerate simili in tale lettura.

[5] Si veda il documento: Piano Territoriale Regionale dell’Emilia Romagna. Una regione attraente. L’Emilia Romagna nel mondo che cambia. Del Ass. Reg. n. 276 del 03/02/2010.

[6] manca immagine

Si vedano in questa elaborazione Censis le condizionimegalopolitane della condizione emiliana nella Valle Padana.

[7] Si veda Roberto D’Agostino sul n. 299 di Urbanistica / Informazioni.

[8] Non possono certo essere una successione di POC contigui tra loro a ricollocare la Via Emilia su obiettivi di riconfigurazione !!