Il concetto di riqualificazione implica un approccio integrato ai problemi del territorio e presuppone una domanda di qualità  (qualità  ambientale, qualità  delle relazioni umane, qualità  della vita urbana) che non può essere soddisfatta soltanto da interventi fisici di recupero o di sostituzione edilizia, ma richiede una maggiore disponibilità  verso programmi complessi che integrino la trasformazione con obiettivi di ricucitura del tessuto urbano e il recupero delle preesistenze con opportuni inserimenti di architettura contemporanea. La stagione dei programmi complessi ci ha posto di fronte ad una quantità  di strumenti tendenti a introdurre nella prassi urbanistica l’obiettivo di integrare fra loro la dimensione del piano e quella del progetto di architettura. Il termine progetto urbano può servire a sintetizzare questo approccio al progetto applicato ad un ambito urbano che comprende architetture e spazi aperti e si qualifica come generatore di un intervento che punta a recuperare in tale ambito obiettivi di centralità  propri delle culture urbane, cercando di non riprodurre la dicotomia esistente tra centro e periferia. Del tutto correlato alla individuazione della “dimensione strategica” del progetto urbano è dunque il tema della definizione di un ambito significativo e degli obiettivi di qualità  urbana da raggiungere in esso. Nella individuazione degli ambiti di intervento va ricercata anche la dimensione possibile per la partecipazione dei cittadini alle scelte che riguardano il loro territorio. Il progetto urbano deve evitare il rischio di cadere in due semplificazioni contrapposte, entrambe negative: da un lato l’ambizione di poter trattare intere parti di città  con un disegno urbano precostituito alla scala del progetto architettonico, che è di per sé concluso e statico e non consente una flessibilità  attuativa; dall’altro l’illusione di concentrare nel progetto di un edificio o complesso architettonico di particolare fascino l’obiettivo di realizzare una nuova polarità  urbana e di riscattare così un intero quartiere periferico dall’anonimato e dalla monofunzione residenziale. La qualità  urbana del progetto deve essere assicurata dunque non dalla sua uniformità  progettuale, quanto dalla pluralità  di funzioni insediate e dalla flessibilità  di impianto; la sua funzione strategica consiste nel costituire un quadro di assieme la cui fattibilità  sia garantita anche in presenza di una certa variabilità  dei singoli interventi. I Programmi di Riqualificazione Urbana costituiscono una tipologia di progetto urbano applicato agli ambiti di riqualificazione per governare i processi di trasformazione urbana, in uno scenario che si pensava caratterizzato dalla fine della fase di espansione della città . Sono uno strumento operativo di pianificazione che attua politiche urbane in partnership pubblicoprivato. Possono restare casi episodici, accordi “caso per caso”, alternativi alla pianificazione generale oppure divenire organici alla pianificazione strategica: perché ciò avvenga occorre evidentemente una forte regia pubblica che si traduca in una “agenda strategica della pubblica amministrazione” e definisca obiettivi e priorità  da realizzare in un determinato arco di tempo (per esempio la prospettiva di un piano operativo comunale). La Legge regionale 19/1998 “Norme in materia di riqualificazione urbana” appartiene alla famiglia dei programmi integrati che a partire dagli anni ’90 hanno innovato l’intervento pubblico in edilizia allargandolo alla sfera del quartiere e coinvolgendo in programmi di riqualificazione una pluralità  di funzioni urbane e di soggetti attuatori pubblici e privati. La caratteristica di questi programmi, nei casi in cui hanno interessato realmente parti significative del territorio urbano e hanno coinvolto i cittadini attraverso forme concrete di urbanistica partecipata, e non solo “consensuale”, è quella della immediata operatività  che si traduce nella contestuale realizzazione di interventi privati e opere pubbliche che concorrono a rinnovare e riqualificare sistemi urbani complessi. Nel corso dei dieci anni trascorsi dalla sua emanazione, la legge è stata sperimentata in una cinquantina di Comuni selezionati sulla base del Bando regionale del 1999, che ha avviato la formazione di 60 Pru e la sottoscrizione di altrettanti Accordi di programma per la loro attuazione. A partire dal 2005 i Pru, o meglio i loro provvisori risultati effettivi, sono sottoposti alla valutazione del Servizio regionale Riqualificazione Urbana, con il duplice scopo di ricavarne un complessivo giudizio di coerenza con gli obiettivi della legge e di formulare una serie di osservazioni utili ad un eventuale adeguamento della legge stessa. L’effetto principale dei Pru, come d’altronde è il risultato atteso anche dai Contratti di Quartiere II, è il recupero urbano di quartieri di edilizia residenziale pubblica e la realizzazione di opere pubbliche e servizi complementari. L’apporto degli operatori privati ha prodotto risultati apprezzabili nella diferenziazione del mix funzionale ma si è tradotto anch’esso soprattutto nella realizzazione di interventi abitativi. In alcune situazioni si è creato un positivo intreccio con le politiche dei trasporti, soprattutto in relazione agli ambiti di stazione, e più in generale sono stati introitati nei Pru finalità  sociali e obiettivi di sicurezza urbana. Di fatto tuttavia quello che era uno degli obiettivi dichiarati della legge 19/98 l’integrazione dei diversi settori di intervento che possono influire sulla qualità  urbana si è realizzato solo parzialmente o episodicamente. Nonostante alcuni esempi positivi, in effetti non si è realizzato in modo soddisfacente nelle amministrazioni locali il coordinamento delle azioni attinenti ai diversi settori nei quali le politiche urbane trovano la loro attuazione: dalle politiche sociali a quelle della mobilità , della regolamentazione del traffico, della lotta all’inquinamento, della difesa dell’ambiente, della sicurezza e del contrasto al degrado urbano. In questa scarsa rilevanza della intersettorialità  hanno certamente avuto un ruolo i vincoli di destinazione di buona parte delle risorse pubbliche utilizzate per promuovere i programmi, che essendo ancora provenienti dal settore dell’edilizia residenziale pubblica hanno indubbiamente determinato un indirizzo prevalente verso le politiche abitative. Tuttavia un altro motivo della scarsa integrazione delle funzioni nei Pru va ricercato in una carenza del processo partecipativo che, pur richiamato dalla legge regionale, in molti casi non si è tradotto in una efficace concertazione pubblica delle proposte e in una condivisione allargata delle scelte. La frammentazione della sfera pubblica è una patologia del governo della città  che si trasmette al comportamento dei cittadini e da questo trae nuova linfa: il declino progressivo dello spazio pubblico va di pari passo con lo sviluppo di politiche urbane settorializzate per funzioni. Così come la zonizzazione, ossia la divisione dello spazio urbano in zone funzionali omogenee, ha infranto l’unitarietà  della polis nella sua dimensione spaziale (ovvero lo spazio pubblico), altrettanto l’amministrazione della città  articolata in settori specializzati per competenze ha frammentato la civitas (cioè la partecipazione alla comunità  in base al diritto di cittadinanza) in una serie di categorie in cui i cittadini sono incasellati come stakeholders (portatori di interessi specifici) espressione che tende ad introdurre forme di specializzazione tra gli amministrati. La specializzazione è di per sé un fattore di dissoluzione per la vitalità  dello spazio pubblico che si nutre di interazioni casuali e spontanee tra persone di età  e attitudini diverse. Se le strade e le piazze della città  non sono frequentate da un pubblico misto (socialmente, culturalmente, anagraficamenteâ¦) ci troviamo di fonte a patologie urbane: spazi segregati o connotati, sia in senso “elitario” che in senso “comunitario”, strade frequentate esclusivamente da un pubblico giovanile, luoghi dedicati agli anziani, ambiti periferici che diventano il punto di ritrovo di gruppi etnici, giardini pubblici in cui si incontrano solo spacciatori e così via. Spesso queste specializzazioni sono la risposta del “mercato” ad una domanda diversificata: per esempio il concentramento di birrerie e paninoteche in zona universitaria o la difusione delle boutique monomarca in alcuni settori del centro. Ma altrettanto spesso sono favorite, anziché disincentivate, dalle politiche pubbliche che non trovano un coordinamento strategico. Uno degli esempi più evidenti dell’incapacità  dell’amministrazione di rispondere con programmi fra loro integrati all’emergere di problematiche difuse di insicurezza e di degrado urbano sta nella tendenza a prendere iniziative episodiche ed emergenziali di ordine pubblico, quando si dovrebbero invece afrontare con misure di programmazione coordinata tra politiche sociali, culturali, di pianificazione degli usi e dei tempi della città . Altrettanto eclatante è la assoluta separatezza delle politiche del trasporto pubblico, che tendono ad afrontare in modo autoreferenziale puri obiettivi di efficienza ed economicità  non interrogandosi sugli impatti delle diverse tecnologie sui contesti urbani né valutando appieno le opportunità  che la rete dei trasporti pubblici può generare verso obiettivi complessivi di riqualificazione urbana. Con il progetto bolognese del Civis queste contraddizioni sono giunte ad una evidenza che ogni giorno si arricchisce di nuovi dettagli per la risonanza che la nuova tramvia ha ottenuto sulla stampa locale da quando, l’estate scorsa, iniziarono i primi cantieri stradali per la predisposizione del tracciato. Così i bolognesi sanno tutto sulla tecnologia del nuovo tram su gomma, “con lettura ottica del percorso e banchine per l’incarrozzamento a raso” ma nessuno, neppure la Soprintendenza ha potuto finora esaminare il progetto esecutivo del tracciato, che interessa le vie del centro storico, per il semplice motivo che, nel gioco di appalti e subappalti, il Comune non ne ha la disponibilità . Pare infatti che l ‘Associazione Temporanea di Imprese che si è aggiudicato l’appalto per conto dell’ATC debba ancora consegnare il progetto esecutivo, nonostante siano già  iniziati i cantieri per la parte periurbana del percorso. Il problema della compatibilità  del Civis con il centro storico non trova quindi una sede di verifica, né in rapporto alle esigenze di tutela e conservazione, né in funzione di un progetto coordinato di valorizzazione degli spazi pubblici che tenga assieme le politiche di regolamentazione della sosta e della pedonalizzazione delle strade con la pianificazione delle attività  commerciali e delle iniziative culturali, per arginare il declino evidente del capoluogo bolognese. Nel paradigma della “qualità  urbana” è fortemente coinvolto il tema delle infrastrutture per la mobilità  e l’accessibilità  ai cosiddetti poli funzionali: sulla disponibilità  ed adeguatezza dei sistemi di trasporto pubblico si misura un indubbio ritardo che gioca tutto a sfavore dei centri maggiori, sofocati dalla congestione del traffico privato non sufficientemente controbilanciato dalla presenza di mezzi di trasporto pubblico realmente competitivi. Se dunque è indispensabile ripianare il deficit infrastrutturale che le nostre città  hanno accumulato in questi ultimi decenni, questo obiettivo non potrà  essere perseguito soltanto attraverso misure congiunturali delegate ai piani urbani del traffico delle singole città , e neppure distribuendo le (scarse) risorse disponibili in spezzoni di progetti locali di metropolitane o varianti sul tema. Si rende quindi necessario attribuire una più marcata definizione al “sistema” delle infrastrutture non come sommatoria di diverse modalità  di trasporto e viabilità , ma come rete i cui nodi divengano i poli privilegiati per la localizzazione di nuove funzioni residenziali e di servizi. In modo complementare si sente l’esigenza di un’analisi delle criticità  rappresentate dalle “barriere” del sistema infrastrutturale su quello insediativo, che non si limiti ad individuare le problematiche esistenti ma ponga in essere un sistema di “soluzioni preventive” per le nuove infrastrutture urbane. Le quali possono essere concepite come l’occasione per rendere più attraente e moderna la città  soltanto se inserite in un progetto che ne sottolinei la funzione e l’immagine identitaria. Va tuttavia sottolineato che l’intervento pubblico nelle aree urbane tende a dare priorità  alle grandi opere e a privilegiare gli interventi fisici di trasformazione urbanistica, trascurando sempre di più “l’ordinaria amministrazione” della città  pubblica. In questa tendenza, motivata anche dalla episodicità  dei finanziamenti disponibili, oltre al fatto che l’attenzione viene proiettata su un futuro incerto per via dei tempi troppo lunghi di attuazione di questi interventi, si esprime anche una scarsa attenzione alla manutenzione dello spazio pubblico, che necessita di una cura costante, fatta sia di azioni puntuali di riqualificazione dell’arredo urbano, sia di un presidio capillare e quotidiano per prevenire il decadimento della qualità  dei luoghi e l’insorgere del degrado. Potrebbe essere questo l’obiettivo da porre in agenda per i prossimi anni: destinare le risorse per la riqualificazione a programmi di manutenzione che possano tradursi occasionalmente in opere puntuali ma conservino un carattere di strumento quadro per promuovere con sistematicità  un innalzamento della qualità  urbana difusa. Resta da individuare un sistema di reperimento delle risorse che garantisca continuità  di finanziamenti alla città  pubblica, posto che il canale dei trasferimenti statali sembra essere esaurito e quello dei fondi comunitari non può assumere certamente un carattere di ordinarietà , al di là  del riconoscimento del ruolo delle città  come motore dello sviluppo. Un recente studio del Cresme ci consegna una fotografia abbastanza stupefacente dello stato delle città  italiane negli anni 2000: le abitazioni di nuova produzione sarebbero aumentate dell’88% tra il 2000 e il 2007. Ciò è il frutto di un trend iniziato negli anni ‘90, quando si pensava ormai esaurita la fase dell’espansione urbana. Ma a popolazione stabile la domanda sostitutiva di case e quella primaria sostenuta del numero crescente di nuove famiglie (frutto delle dinamiche migratorie e in gran parte composte da single) ha generato una forte pressione sull’oferta di nuove case localizzata in modo particolare nell’hinterland dei grandi sistemi urbani. Le periferie più estreme e i comuni minori delle aree metropolitane hanno registrato tra il ’91 e il 2001 forti crescite di popolazione che si sono ulteriormente intensificate nei primi anni 2000. L’edilizia è tornata d essere come nel primo dopoguerra il settore di investimento primario. Ma così come allora la qualità  del prodotto in questa nuova fase espansiva si è attestata su livelli bassi e su tipologie edilizie tradizionali che riecheggiano quelle degli anni ‘60/’70: si tratta in gran parte di palazzine monofunzionali costruite con soluzioni tecnologiche non innovative senza attenzione al risparmio energetico e alla sostenibilità  ambientale. La disciplina urbanistica impegnata ad elaborare ricette per la perequazione non ha inciso né da freno né da indirizzo, rimanendo ancorata alla ricerca di uno scambio leale tra pubblico e privato che non ha avuto modo di realizzarsi in una fase espansiva del mercato, assecondata dalla necessità  dei comuni di fare cassa con il gettito dell’Ici e degli oneri di urbanizzazione. Forse occorre partire da questa constatazione un po’ tardiva per chiedersi se non sia il caso di rivedere al rialzo l’incidenza degli oneri e disciplinarne la destinazione per le esclusive necessità  della città  pubblica. E dato che sembra si vada ora verso una fase di riflusso della domanda di abitazioni, potrebbe essere venuto il momento per una riforma della disciplina urbanistica che promuova la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente come terreno prioritario se non esclusivo degli investimenti immobiliari.