Per capire le vicende urbanistiche attuali è necessario abbandonare ogni metodologia che ha guidato fino ad oggi le analisi basate sul rapporto fra le previsioni del Piano Regolatore Generale Comunale e quanto si manifesta sul territorio, per il semplice motivo che i PRG non esistono più. Fino alla prima metà  degli anni Ottanta, il PRGC è stato lo strumento ordinatore principe del territorio: si poteva combatterlo, si poteva cambiarlo fino a snaturarlo attraverso la pratica ricorrente delle varianti, si poteva perfino evaderlo e poi aspettare i condoni, ma il Piano regolatore restava la “legge”, il patto ufficiale attraverso cui si garantivano gli interessi collettivi nei confronti di quei pochi che volevano usare il territorio a loro vantaggio esclusivo, di quanti, cioè, più o meno palesemente volevano “mettere le mani sulla città “. E’ in quegli anni che inizia l’opera di smantellamento del Piano: inefficace, inefficiente, rigido, razionalista, legato alla zonizzazione monofunzionale, inapplicabile, vecchio, da superare. Uno strumento da cambiare non nelle previsioni, ma nella sua logica e nella sua struttura. E’ una vicenda che si può verificare nelle maggiori realtà  italiane, che recepiscono prima questo cambiamento, ma che possiamo ormai toccare con mano pressoché in tutto il territorio nazionale. Per comodità  prendiamo come esempio la vicenda di Firenze: una città  pianificata fin dalla metà  dell’Ottocento e con un PRG esemplare come quello del 1962 e inserita in una regione, la Toscana, che nel 1995 si è data una legge sul Governo del territorio (poi rivista nel 2005) che è stata indicata dall’INU come modello da imitare. Dunque una vicenda emblematica per il suo quadro di riferimento e per le sue valenze positive. Eppure in questa situazione così perfetta si è consumata negli ultimi 15 anni una vicenda urbanistica che nelle modalità  non ha nulla da invidiare a quelle di altre città  spesso additate come esempio negativo come Milano. Un’utile chiave di lettura ce la fornisce proprio uno dei protagonisti della vicenda fiorentina, Giuseppe Campos Venuti, in un suo volume1 dove analizza i concetti di urbanistica contrattata e di urbanistica riformista che stavano contrapponendosi in quegli anni nella redazione dei PRGC italiani, attraverso il superamento del piano “razionalista” ovvero del piano inteso come patto collettivo garantito dal potere pubblico e organizzato attraverso indici, parametri, quantità  definite di aree pubbliche e zone, ed esplicitato nei suoi meccanismi palesi di crescita e/o di ri-uso del patrimonio edificato. Si lasciava un quadro chiaro, comprensibile, rivolto ai cittadini-utenti e destinatari del piano per un diverso modo di concepire la pratica urbanistica. Si lasciava cioè quella spinta di partecipazione che, nel decennio precedente, aveva visto l’impegno dei sindacati e dei movimenti di base (si pensi, per esempio, alle lotte per la casa come servizio sociale e alla legge n. 865/71, come pure ai movimenti “riprendiamoci la città ” per la rivendicazione di aree verdi e servizi) riafermare il primato dei cittadini rispetto alla formazione del piano. Vigeva allora, come ora, sul territorio nazionale la legge urbanistica del 1942 e le Regioni avevano iniziato ad assumere le competenze in materia di pianificazione del territorio: oltre allo snellimento dell’iter di approvazione dei piani, l’obiettivo fondamentale era quello di dotarsi degli strumenti essenziali (la cartografia, per esempio), di dare criteri di programmazione a scala regionale o per grandi aree in grado di orientare la stesura dei piani urbanistici comunali (aree di crescita o aree sature), nonché di garantire il rispetto dei minimi di legge per le aree destinate ad attrezzature pubbliche. Si attendeva, ancora, la riforma urbanistica, che era uscita assi malconcia alla fine degli anni ‘60 dalle vicende del Governo detto delle Convergenze parallele e dal primo Centro sinistra (proposte dei Ministri Fiorentino Sullo, Giovanni Pieraccini e Giacomo Mancini). Furono proprio le Regioni a fare l’ultimo coerente tentativo alla metà  degli anni ‘70, proponendo insieme all’INU una legge quadro in materia urbanistica. E’ l’epilogo di una storia. Poco dopo, con la legge n.10 del 1977 si abbandona ogni rivendicazione sull’abolizione della rendita e sull’esproprio generalizzato e si passa a più miti consigli scegliendo la via della tassazione della rendita attraverso il regime concessorio dei suoli a somiglianza della legislazione francese. Meccanismo di per sé accettabile anche se perverso -più faccio costruire più incremento gli introiti del Comunee che oggi fa dubitare sulla felicità  della strada intrapresa allora. Con le elezioni amministrative del 1975, le sinistre con il PCI vanno al potere in molti dei grandi comuni italiani e si trovano a dover gestire non più realtà  socialmente coese come era stata quella di Bologna, ma situazioni più vischiose, in cui si mescolano quelle che allora furono definite connivenze e complicità “oggettive”. Il rapporto fra il piano e la sua gestione entra in crisi, non già  perché gli strumenti siano sbagliati o inattuabili (i “libri dei sogni”, come furono definiti con un certo disprezzo da non pochi amministratori), ma perché premono sempre più le urgenze immobiliari e le operazioni di espansione o di riuso proposte da grandi società  private 2 devono essere condotte a termine in tempi “ragionevoli”: le città  non possono “star ferme” e le campagne -ormainon rendono più dal punto di vista produttivo e devono essere colmate. La solidità  dell’impalcato dei piani rende tuttavia difficile il loro smantellamento e allora invece di intervenire in modo palese sui meccanismi di formazione e di gestione dei PRG si preferisce mettere in crisi lo strumento attraverso la sovrapposizione di due operazioni diverse: i piani di settore usati come variante al PRG e l’introduzione dei grandi progetti (piano disegnato) che sostituiscono e si sovrappongono come varianti a singole parti del PRG. Firenze, in quest’ottica, può essere letta come un caso da manuale per le modalità  con cui si inizia a smontare il piano “riformista” del ’62, che a distanza di quasi 50 anni sembra vendicarsi per la lungimiranza delle sue previsioni all’interno dei confini comunali e nella dimensione sovracomunale (oggi area metropolitana).3 La strategia generale del piano del ’62 viene osteggiata da molte parti, da “coloro che hanno riposto tutte le speranze nel ruolo demiurgico delle holding finanziarie, favorendone di fatto le colossali e totalizzanti imprese, ostili al pluralismo dei protagonisti economici e delle localizzazioni difuse nelle periferie urbane e metropolitane. Non danno il loro appoggio neppure coloro che pure si battono con costanza per un disegno ambientalista, arrivando a mettere in discussione l’indispensabilità  di decongestionare il centro storico, invaso e messo a sacco dalle funzioni terziarie e direzionali! non riescono infine a trovare accordo le forze politiche di sinistra, che pure nella strategia riformista si richiamano per la trasformazione della società  nel suo insieme” 4. La negazione del piano del ’62, noto come piano Detti, passa per un contesto di azioni e varianti che di fatto lo rendono obsoleto: la principale è la definitiva cancellazione dell’area corridoio lasciata libera per la realizzazione del cosiddetto Asse attrezzato, che aldilà  delle modalità  della sua realizzazione era (avrebbe potuto essere) l’unico varco di attraversamento est-ovest della città . Ma il corridoio infrastrutturale previsto passava all’interno di un’area industriale di proprietà  della Fiat, e questo va a contrastare con la realizzazione della prima grande operazione di rinnovo della periferia fiorentina, quella da effettuarsi appunto in sostituzione dello stabilimento ancora attivo della Fiat, collocato nella zona industriale prevista dal Piano del 1917-24 ormai interna alla città . Una lunga vicenda, che ormai è storia ed è visibile in un quartiere dal look padano, ribattezzato come San Donato, per non confonderlo con il quartiere di Novoli in cui è inserito, sinonimo di pessima qualità  edilizia e confusionedell’impianto urbano. Una vicenda che inaugura a Firenze un nuovo modo di fare urbanistica: la contrattazione, che di per sé potrebbe anche non avere un significato negativo se non fosse stata accompagnata dall’incapacità  amministrativa di trarne un reale vantaggio pubblico e ottenere serie e consistenti contropartite nella riorganizzazione della città . Per portare a buon fine la contrattazione è necessario mettere in crisi il piano. Si usa l’arma della mancanza di qualità  confutando al piano razionalista e/o quantitativo della zonizzazione l’impossibilità  della sua attuazione. Qualità , parola magica ed enigmatica: qualità  della vita, qualità  dell’ambiente, qualità  dell’estetica cittadina, qualità  nell’attuazione del piano. La nuova città , moderna e dinamica, deve superare le pastoie della quantità  (standard, rapporti e indici) e dello zoning (zona monofunzionale, zona omogenea, zona pre-definita) . Sono molti e autorevoli coloro che sostengono questa tesi e la soluzione si consolida, come già  anticipato, nella definizione dei piani di settore indiferente alla complessità  del contesto e nel piano disegnato applicato su segmenti di città . Entrambe le vie sono incoraggiate dalla politica della Regione Toscana a partire dai primi anni ‘80. A Firenze, si mettono in cantiere, fra gli altri, i piani del traffico, dei parcheggi, dei campeggi, degli alberghi, del commercio (ne esistono addirittura due), dell’università  nel centro storico basato sull’ipotesi della sostituzione delle funzioni e, naturalmente, il piano-casa che grazie ai provvedimenti del Ministro Andreatta permette di costruire dappertutto senza dover tener conto delle previsioni di piano (ma si sa per la casa è sempre emergenza!). Si delinea una revisione di fatto del PRG al di fuori di quella ufficiale in corso. A questi si aggiungono i grandi progetti, molti dei quali sono ancora di iniziativa pubblica, e su cui si misurano le migliori firme dell’architettura italiana: i progetti sono sinonimo di modernità  e di qualità  e si calano su un territorio di vecchia urbanizzazione, trattata come indiferente rispetto ai nuovi carichi ed alle nuove funzioni. Traffico, parcheggi, mobilità  e trasporti sono un problema a parte, un problema che sembra non aver nulla a che fare con la struttura della città  che si sta delineando. Una mediazione fra i propugnatori delle grandi architetture urbane e gli urbanisti tradizionali legati al piano “razionalista” (un giorno qualcuno spiegherà  la logica di questa classificazione e, soprattutto, il disprezzo ad essa conseguente) è tentata dai piani della cosiddetta “terza generazione” (che possiamo definire, anche l’ultima dei PRG) che cercano di afrontare le problematiche legate alla sostituzione edilizia di destinazioni obsolete situate in tessuti già  urbanizzati e gli infiniti problemi della riorganizzazione del sistema urbano complessivo. Nel caso fiorentino si tratta di instaurare un ponte fra i piani della prima generazione (quelli che hanno fatto la storia dell’urbanistica in Italia) e le esigenze della città  postindustriale. In questo contesto va collocato il Progetto di Preliminare di PRG di Firenze (Astengo Campos Venuti), che purtroppo è destinato a soccombere trascinandosi dietro l’ultimo vero tentativo di conciliare il disegno generale della città  pubblica con quello delle esigenze incalzanti delle richieste private. La sua sorte appare precocemente segnata. Bernardo Secchi inquadra Firenze in una tendenza più generale e scrive nel 1985: “abbandonata l’idea di sovrapporre alla città , urbs e civitas, un disegno, una forma fisica e politica; abbandonata ogni visione razionalista del piano e della politica urbanistica come insieme di azioni totalmente definite ex-ante, abbandonata anche la centralità  del soddisfacimento dei bisogni di una parte sociale, il problema è ora riferito alla qualità . Qualità  è termine che evoca, non costruisce linguaggi descrittivi univoci e rigorosi; tanto meno costituisce teoremi e schemi di calcolo.” 5 Tutto è fluido, opinabile, valutabile con occhi ed ottiche diverse. Insomma, tutto è possibile. Punto di riferimento diventano alcune esperienze straniere e si vuol emulare la dinamicità  di alcune città  europee. L’interesse si trasferisce dal Nord Europa (modello socialdemocratico) al Mediterraneo (Francia e Spagna). Il caso più citato è Barcellona e il suo piano di disegno urbano con creazione di piazze, edifici pubblici e privati. Si resta ammirati dal fiorire di progetti, ma non si dice che a monte di tutti quei progetti c’è il Piano Metropolitano del 1976 che indirizza la logica degli interventi, né che si procede con una legge urbanistica “copiata” a suo tempo da Franco, pressoché di sana pianta, dalla Legge Urbanistica del 1942. Viene esplicitata solo la punta dell’iceberg e si sorvola sulla valenza pubblica della grande operazione in atto e che dura fino alle Olimpiadi del 1992 ed è in grado di guidare le trasformazioni, le plusvalenze della rendita fondiaria attraverso la mano pubblica che applica perfino lo strumento del comparto e fa operazioni remunerative di compra-vendita di aree attraverso il controllo della destinazione d’uso e l’applicazione degli indici di fabbricabilità . 6 Non si vuol conoscere il fenomeno, ma si è interessati solo all’epifenomeno. Così, a Firenze, il Preliminare di piano non riesce ad essere neppure adottato in Consiglio comunale in quanto non interessato a sostenere il progetto di una qualità  urbana difusa controllata pubblicamente e “basata” su due operazioni distinte e coordinate: le trasformazioni estensive, radicali su 12 aree programma costituite per lo più da aree dimesse dislocate prevalentemente nella periferia cittadina e trasformazioni estensive, leggere, capillari, graduali sui tessuti urbani. E soprattutto non riesce a rendere compatibili con la strategia adottata le due maggiori operazioni immobiliari: il progetto di espansione per l’area di Castello lasciato irrisolto per non aver dato seguito ai risultati del concorso per il centro direzionale e riproposto dalla Fondiaria all’inizio degli anni ‘80 e quello di riuso (termine desueto) dell’area di Novoli, che la società  automobilistica decide di dismettere nel 1984. La crisi urbanistica fiorentina coincide con la ricerca dei nuovi strumenti in grado di conciliare le esigenze di proprietari ed investitori. Per poter perseguire l’obbiettivo si fanno progetti larga di massima, schizzi orientativi, che si possono variare via via con aggiustamenti sia nella fase di messa a punto del piano attuativo che in quella esecutiva. Strumenti di poco valore, ma flessibili, agili, moderni, come li vuole l’investitore. La sequenza pianificazione/gestione del territorio che aveva visto, forse anche impropriamente, la supremazia disciplinare della progettazione urbanistica viene travolta dall’esigenza di “governare il cambiamento” che, senza il controllo dei tempi, trasforma l’urbanistica da analisi-progetto-gestione del territorio in strategia-governo del territorio afdata non più ad un sapere tecnico condiviso e discusso con il potere politico, ma consegnato, direttamente e in toto, ad amministratori e politici. Inizia il processo della “deregulation” favorito in alcune realtà  dai finanziamenti statali per i grandi eventi come i Mondiali di Calcio del 1990, le Colombiadi del 1992 o il Giubileo 2000, che autorizzano la legale, palese evasione delle previsioni di PRG. Il piano diventa un supporto indiferente per un assemblaggio eterogeneo fatto ” con progetti d’area, con disegni di architettura, tutti diversamente concorrenti ad afermare e giustificare il prevalere assoluto delle grandi società  finanziarie”.7 Roma tiene il passo coi tempi grazie ai finanziamenti per Roma Capitale e per il Giubileo, mentre Milano consolida la nuova via con il Documento Direttore e procede con una serie di operazioni di sostituzione interne al tessuto urbano di cui oggi vediamo tutta la dirompente portata. 8 La logica vincente è quella dei grandi scenari e delle proiezioni a lungo periodo per poi agire su singole aree, per “adattamenti” utili a seconda del momento, contrattando e/o concertando le operazioni da compiere sulla città  e il suo intorno. Firenze, nel 1993, si da’ un piano firmato da Marcello Vittorini che fra i suoi primi atti adotta una Variante, detta di salvaguardia, che consente l’avvio dell’operazione Fiat, anzi spavaldamente la assume come sperimentazione per i criteri da adottare nelle altre aree di ristrutturazione urbanistica. Il PRG Vittorini definisce una percezione della realtà  urbana per quello che è, non fa mediazioni, fa i conti con le aree in cambiamento, nobilitando il tema con l’imposizione di una presunta qualità  che si sovrappone all’immagine. Le 12 aree programma del Preliminare Astengo-Campos Venuti si moltiplicano in innumerevoli nuove centralità , che altro non sono che progetti di ristrutturazione. Il piano Vittorini si sostituisce allo storico piano del 1962 (piano Detti) e viene proposto alla città  come “piano della realtà “, capace, definito, applicabile in tutte le sue parti. Spariscono nella sua concezione molti dei lacci e laccioli che avrebbero potuto condizionare la sua capacità  attuativa e ritardare lo sviluppo di Firenze. Si fa finita una volta per tutte dei dubbi sulla collocazione della stazione centrale di Firenze (che resta nel centro del Centro storico, dove già  Giuseppe Poggi la considerava incongruente), si approva un corposo sviluppo a Nord-ovest con il completamento dell’operazione Fiat e la saturazione dei terreni fino al confine comunale nell’area FondiariaCastello, riuscendo miracolosamente a tenere insieme tutto dall’aeroporto di Peretola alle nuove residenze, dalla Scuola dei Carabinieri alla sede della Regione e della Provincia, dalla concentrazione delle scuole superiori (5000 studenti) al Parco attrezzato fino alle nuove quote di terziario privato. Siamo di fronte ad un piano atipico che va “oltre” la terza generazione, ad un piano non amato dalla cultura urbanistica, su cui la stessa CRTA9 impone una valanga di prescrizioni e che viene votato dal Consiglio Comunale nella sua “versione corretta” nel febbraio 1998 con lo slogan “Votiamolo oggi, da domani si lavora per cambiarlo” 10. Eppure questo piano, ancora vigente, ha veicolato perfettamente quella che viene definita l’operazione dell’”ammodernamento” di Firenze. La sua spregiudicatezza disciplinare, quel suo non collocarsi nei filoni delle riviste di urbanistica, quel suo procedere per frammenti urbani gli ha permesso ben aldilà  delle sue intenzioni di interpretare e prosperare all’interno delle dinamiche fondiarie e finanziarie attuali. Fra l’adozione e l’approvazione del PRG la Regione Toscana emana la sua nuova legge, non più urbanistica, ma sul Governo del territorio (LR. 5/95). Un motivo in più per mettere mano al PRG, ma senza fretta: è necessario che si lasci il tempo per attuare tutte le operazioni previste. Si mettono in cantiere gli studi per un Piano Strategico che dovrebbe dare le linee per il Piano Strutturale ai sensi della LR 5/95, ma i due studi poi prendono strade separate articolate in due esperienze successive e autonome. A questo punto la vicenda urbanistica fiorentina va letta all’interno del mutamento del quadro normativo toscano che si colloca nello spirito della Seconda Repubblica. Infatti, coi cosiddetti decreti Bassanini del 1998 si ribadisce che l’urbanistica è materia di competenza delle Regioni e che il sistema degli Enti locali non è più ordinato gerarchicamente, ma al contrario, è interpretato secondo una concezione federalista dello Stato, ad esso si applicano i principi di sussidiarietà  ed adeguatezza che ribaltano la sequenza tradizionale e si basano su un rapporto esplicitato dal basso verso l’alto, in cui il comune assume rilevanza e centralità . La Regione Toscana applica questi principi rapidamente e senza incertezze e, in urbanistica, si pone il problema di conciliare la previsioni di lungo periodo del piano a livello territoriale con la necessità  di un governo rapido e flessibile delle trasformazioni. Il rapporto fra chi governa (Sindaco) e chi attua (operatori pubblici e privati) diventa la chiave di comprensione delle dinamiche territoriali, dalle quali il cittadino sembra scomparire. Non ci sono enti o organismi sovrordinati di controllo a livello reguonale: la dimensione comunale domina la scena. E’ al suo interno che maturano tutte le strategie: dall’arredo urbano alla localizzazione dei servizi, alla viabilità , alla costruzione dei nuovi quartieri residenziali, delle aree industriali e dei centri commerciali. Il quadro su alcune scelte torna a criteri quantitativi applicati con discrezionalità  a scala regionale e/o provinciale (es. superfici per la grande distribuzione o multisale per spettacolo) o ad accordi fra comuni vicini, Provincia e Regione per i sistemi delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti) o per la localizzazione delle attrezzature di servizio (inceneritori, discariche). Teoricamente lo sviluppo e la sua proiezione territoriale dipende da un quadro meta-programmatico a scala regionale (PIT) e da un piano di indirizzo a scala provinciale (PTC), ma la titolarità  della legittimazione delle scelte resta in ultima analisi ai sindaci in quanto titolari esclusivi della potestà  comunale ed investiti dai cittadini con elezione diretta. Gli attori del piano si collocano su due fronti: i cittadini, utenti e fruitori, che possono aderire, subire, condividere o contestare le previsioni, ma non hanno più capacità  di interloquire in una dialettica positiva con l’Amministrazione Comunale e gli investitori che possono viceversa contrattare gli interventi e, a fronte di una finanza comunale fragile e povera, sono sempre più in grado di imporre le loro scelte. Al sistema pubblico in crisi nelle sue finanze e nel suo meccanismo rappresentativo non resta che il ruolo di mediatore delle dinamiche economiche sul territorio con l’unica capacità  di accelerare o rallentare l’attuazione del piano, che è ormai nelle mani dei privati. Le leggi urbanistiche della Toscana (n. 5/ 1995 e n. 1/2005) interpretano e agevolano questo processo e grazie all’appoggio totale ed incondizionato dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che garantisce l’avallo disciplinare e tecnico necessario, riportando la questione della pianificazione dalla cogenza previsionale alla sfera di orientamento e di indirizzo, mortificando ogni azione di controllo e verifica. In questo scenario di transizione va a collocarsi il Piano strutturale del comune di Firenze del 2004, riapprovato nel luglio del 2007. Uno strumento ibrido, impreciso, non rispondente alle prescrizioni né della LR 5/95 né della successiva LR 1/2005. Un quadro confuso, senza qualità  né strategia, che trova la cittadinanza impreparata e incredula che quei fogli (le cosiddette “dodici tavole”) siano un vero piano regolatore comunale, un progetto per la città , un serio responsabile atto di pianificazione. Eppure, questo quadro senza quantità  né qualità , buono per tutte le operazioni con aggiustamenti ad hoc, con un uso improprio della perequazione, del project financing e di tutto quanto possa essere utile per velocizzare le operazioni edilizie, regola le previsioni future di una città  dalla storia importante: una storia che attiene al campo artistico, culturale, ma anche a quello dell’urbanistica italiana e che sembra non vedere oltre la felicità  di un centro storico invaso da turisti a giornata e di una periferia modellata con le logiche della privatizzazione e della finanza immobiliare, sempre più estesa e priva di ogni qualità .

  1. Cfr. G.Campos Venuti, L’urbanistica riformista, Emas libri srl, Milano 1991.
  2. Su questo tema, cfr. La città  occasionale, a cura di F. Indovina, Francoangeli ed., Milano 1993.
  3. M.Zoppi, Firenze e l’urbanistica: la ricerca del piano, Edizioni delle Autonomie, Roma 1982.
  4. Campos Venuti, Op cit pag. 195.
  5. Cfr. B. Secchi, Le condizioni del progetto urbanistico, in URBANISTICA n.81, 1985 pag. 62.
  6. L’operazione della Villa Olimpica è in questo senso esemplare.
  7. Campos Venuti, Op. cit. pag 1991.
  8. Cfr Deregulation urbanistica, in Urbanistica Informazioni, Dossier 5/95.
  9. L’acronimo sta per Commissione Tecnica Regionale di Controllo.
  10. Cfr. P.Jozzelli Vecchio e rigido, in La Repubblica 6 febbraio 1998 , pag I, Cronaca di Firenze