Nel dibattito apertosi in Toscana su Monticchiello ma subito diventato nazionale, l’attenzione si è concentrata soprattutto e non unicamente sul tema del paesaggio, con denunce vivaci e autorevoli sui rischi gravi che la regione felix sta ormai correndo. Anche le problematiche poste dal PIT e altri documenti regionali sono rapidamente confluite diciamo cosìfino quasi a identificarvisi del tutto, con questo aspetto. Se ciò in Toscana trova naturalmente più d’una comprensibile giustificazione non per questo la questione paesaggio può da sola riassumere e tanto meno esaurire vicende e profili sicuramente più complessi e variegati. E tuttavia si può senz’altro prendere le mosse da questo aspetto importantissimo per cercare di individuare e cogliere profili e intrecci rimasti finora troppo in ombra o che sono stati sovente semplificati fino alla banalizzazione, ad esempio, per quanto riguarda i ruoli istituzionali. E vorrei farlo partendo da alcune afermazioni contenute in una relazione di Vezio de Lucia ad un recente convegno tenutosi a Roma. De Lucia riferendosi al paesaggio e a quanto sta accadendo in Toscana e in tante altre parti del paese, ha sollevato alcune serie riserve sulla Convenzione europea firmata proprio a Firenze, contestando in particolare l’afermazione secondo cui “il paesaggio è una determinata parte del territorio così com’è percepito dalle popolazioni”, e soprattutto che esso possa e debba costituire una risorsa favorevole alle attività economiche. Tutto ciò non convince De Lucia che trova sbagliato soprattutto che il paesaggio oltre che funzionalizzato allo sviluppo economico sia rimesso alla valutazione e percezione dei locali interessati. Bello o brutto, insomma, il paesaggio è sempre espressione di un giudizio estetico, comunque un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione soprattutto alle convenienze “locali”. Da qui il passo è breve per trarne precise conclusioni sul piano istituzionale e lo fa con la consueta e brutale chiarezza Vittorio Emiliani per ribadire che i piani paesaggistici regionali non vanno lasciati alla libertà di manovra dei comuni, disposti a tutto pur di far cassa. Si tratta, come si vede, di due aspetti certamente intrecciati ma che vanno in via del tutto preliminare esaminati prima separatamente. Dobbiamo cioè, innanzitutto, chiarire sebbene la discussione su questo punto sia annosacosa significa oggi pianificare il paesaggio il che implica ovviamente intendersi sul concetto stesso di paesaggio. De Lucia, infatti, ha ricordato il giudizio estetico comunque svincolato da altri aspetti in primis l’economia. E’ un punto cruciale e estremamente delicato perché da qui dipendono anche quelle scelte e ruoli istituzionali che dopo il dibattito toscano sembrano di nuovo spostare il pendolo decisamente verso una competenza statale o di interesse nazionale, tutte formule sulle quali sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza alcuna pretesa quindi di ripercorrere una vicenda lunghissima e complicata si possono però ricordare alcuni passaggi che hanno segnato il superamento niente afatto definitivo evidentemente di una concezione meramente estetica del paesaggio, tornata in auge peraltro anche con gli allegati del PIT toscano. Non v’è dubbio che proprio la Convenzione europea la quale dichiara l’intero territorio agricolo meritevole di tutela e protezione a fronte di un consumo impressionante in gran parte dei paesi europei va in questa direzione, perché sarebbe difficile evidentemente considerare questo “vincolo” così generalizzato dettato da preoccupazioni unicamente d’ordine estetico. Ciò risponde, semmai, a quella concezione che considera il paesaggio identità di una località e dunque della possibilità di conservare da parte di una cultura e di una popolazione un proprio retaggio. Non è forse questo il caso della Val d’Orcia? Il paesaggio come è stato detto è per definizione una località culturale e poi conta il tipo di sopravvivenza che si riesce a garantire altrimenti avremo campagne senza contadini, montagne senza montanari. Potremmo qui ricordare anche il dibattito sulle comunità montane o le riflessioni di scrittori come Rigoni Stern o Mauro Corona, ma anche il teatro di Paolini. E’ quella universalità che come dice lo storico Piero Bevilacqua ha sede nel forte radicamento locale, in quella vecchissima simbiosi tra taluni paesaggi e abitanti di cui parlava anche una bella guida del TCI del 92. Potremo dirlo meglio con le parole di Carlo da Pozzo: “Il paesaggio altro non è che la manifestazione visibile dell’interazione locale tra forze naturali (fisicheebiologiche)eleattività umane;insostanza, l’immagine sensibile e tangibile del territorio, inteso comeprodottodell’applicazionediunlavoroumano nello spazio fisico e in quanto tale interpretabile come sistema di non-equilibrio, nel quale gli elementi interagiscono tramite flussi di energia e di informazioni”. Insomma, non semplice panorama che è semplice “veduta d’assieme”. Ma lettura di senso non statica di processi in cui ci sono tracce del vecchio e si può scorgere la lotta presente tra la vecchia e nuova struttura, tra conservazione e innovazione. E’ il prevalere come scriveva molti anni fa Mario Libertini e ancor prima Sestini dell’accezione geografica su quella estetica. D’altronde la legge 431 estende il giudizio di bene da conservare a molte più componenti del paesaggio naturale (rispetto alla legge del 39) sebbene continui a considerarli bisognosi di salvaguardia e tutela in quanto beni culturali e non in quanto beni ambientali. Spesso si confondono ancora nella legge le due pianificazioni paesistica e naturalistico ambientale. E i paesaggi rurali storici ad esempio sono ancora i più trascurati salvo non si tratti di emergenze da tempo tradizionalmente codificati. Restano, insomma, come per l’urbanistica e architettura vuoti da riempire (Calogero Muscarà ). Difficile quindi sotto questo profilo non considerare la Convenzione europea una importante innovazione che va a colmare una falla non di poco conto o comunque a ribadire esigenze sempre a rischio di accantonamento e elusione. E tuttavia il concetto di paesaggio da paesaggio immagine a paesaggio geografico e ancor più a paesaggio come processo sociale di elaborazione e come esito sensibile di fatti ambientali con importanti implicazioni operative, che trova significativi riconoscimenti proprio nella Convenzione europea specialmente in riferimento ai territori agricoli, sembra ormai aprirsi sempre più a quelle istanze ambientali non riconducibili unicamente ad una pur nobile tradizione e concezione. “La scala del paesaggio come dice Luigi Boitani (99) da sola non basta, occorre ‘un compromesso utile tra le esigenze delle specie e quelle della gestione territoriale”. L’uomo, insomma, è visto come agente modificatore e non più come osservatore. E la politica di protezione della natura, protezione spaziale e specie quella dei parchi sembra un mezzo particolarmente potente per creare zone che corrispondano a questo ideale e bellezza, ad esempio, del paesaggio montano e non solo. Potremmo dire semplificando al massimo che il paesaggio e la sua concezione e gestione deve sempre più misurarsi e fare i conti rispetto allo stesso art 9 della Costituzione con l’afacciarsi delle nuove tematiche ambientali non più solo nella dimensione nazionale ma comunitaria e internazionale. D’altra parte la stessa 431 laddove aferma il valore primario estetico culturale del paesaggio demanda alle regioni il compito di ristudiare il territorio comprendente nuove categorie da tutelare con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali. Ambientali è termine aggiunto rispetto allo stesso art 9 sebbene resti quel limite già ricordato ossia che i beni culturali sono considerati non ancora in quanto beni ambientali, anche se la Corte costituzionale da tempo parla indiferentemente di vincolo paesaggistico e vincolo ambientale. La 431 sotto questo profilo introduce una innovazione di grande rilievo in quanto non si interviene più per eccezioni bensì “salvo eccezioni”. E’ il superamento di quella tutela puntiforme ricondotta ora non solo ad un’ altra scala e dimensione ma anche a nuovi contenuti e modalità che devono tenere conto di quelle tematiche ambientali che non a caso da tempo al Senato si cerca anche di inserire esplicitamente nell’art 9. Da queste necessariamente sommarie considerazioni dovrebbe almeno spero risultare abbastanza chiaro che le preoccupazioni e le riserve espresse da De Lucia sulla Convenzione europea specialmente in riferimento a valori non di natura esclusivamente estetica, sembrano eludere o almeno non valutare con la dovuta attenzione il nuovo intreccio andato stabilendosi tra vicende economico-sociali e ambiente e quindi il paesaggio. Sofermiamoci un momento proprio sulla Convenzione europea laddove considera l’intero territorio agricolo non più come vuoto da riempire tranne eccezioni, ma da tutelare in nome di una cultura, tradizioni anche produttive dalle quali dipendono non solo esiti economici importanti ma anche ad esempio la biodiversità che specie in europa passa incontrovertibilmente da politiche di sostegno della ruralità e non di costoso sostegno a singole produzioni troppo generosamente assistite. La Toscana ofre sotto questo profilo esempi di straordinaria attualità e significato di cui abbiamo avuto modo di interessarci anche sulle pagine di Toscanaparchi con alcuni contributi molto importanti di Rossano Pazzagli che ha curato anche un recente libro della Collana sulle aree naturali protette dell’ETS su “Paesaggio Toscano tra storia e tutela”. Qui più e più visibilmente che altrove appare chiaro che solo politiche che sappiano farsi carico della ruralità e non solo del “mercato” di prodotti lautamente foraggiati, è condizione perché il paesaggio toscano specie collinare non risulti stravolto anche senza pesanti interventi cementificatori. Si pensi tanto per fare un esempio su cui Pazzagli ha scritto pagine di grande interesse – al rapporto vite-ulivo. Ma davvero si può pensare che una simile, impegnativa politica sia realizzabile guardando al paesaggio così come viene riproposto in taluni allegati del PIT in cui l’estetica più romantica la fa da padrona ? Sono stati valutati i danni sovente irreparabili prodotti dall’abbandono delle campagna sia dal punto di vista della biodiversità che del paesaggio e dei beni culturali e dell’ambiente nel suo complesso? I danni in questo caso sono dati certo dal territorio consumato (riempito) ma non di meno dal degrado e dall’abbandono. E pensa davvero De Lucia che qui si possa intervenire con ragionevoli speranze di successo non considerando, ad esempio, quella “funzionalizzazione” dell’intervento economico che tanto lo allarma e non lo convince? Ma a questo punto torna il nodo a cui abbiamo accennato in premessa ossia l’intreccio ma anche la specificità del ruolo delle istituzioni nella gestione non soltanto del paesaggio ma più in generale delle politiche ambientali. Ripercorrendo sia pure a grandi passi l’evoluzione del concetto stesso di paesaggio abbiamo visto il ricorrente e crescente riferimento ai radicamenti locali, alle tradizioni e culture locali e alla loro simbiosi che oggi trova proprio nella dimensione globale nuovi stimoli e ragioni di rilancio e attualizzazione. Una dimensione che presenta naturalmente anche degli evidenti rischi in particolare di chiusura localistica e vernacolare, sicuramente i meno idonei e appropriati a trovare nei grandi processi di trasformazione in atto le sintonizzazioni e i raccordi più efficaci e adeguati. E tuttavia è questa una dimensione, un passaggio ormai ineludibile per chiunque non si illuda di poter fare e decidere tutto a Roma al caldo di qualche ufficio ministeriale. O pensi di riproporre quella concezione separatista dei rapporti stato-regione che ha sempre prevalso come denunciava già tanti anni fa inascoltato Massimo Saverio Giannini sulle cui conseguenze non è qui il caso si sofermarsi tanto sono evidenti e acclarate. La Corte costituzionale già negli anni ottanta iniziò dopo avere ancora negli anni sessanta considerato l’interesse alla tutela del paesaggio subordinato all’esigenza “ben maggiore” della difesa nazionale (!) a parlare proprio in riferimento al vincolo paesaggistico e al vincolo ambientale di regionalismo cooperativo. Per la prima volta si parla del compito dello statoordinamento che sta a significare è bene ricordarlo ai troppi immemori non dello stato persona per dirla in gergo ossia lo stato dei ministeri bensì dello stato che comprende su un piano paritario regioni e enti locali appunto l’ordinamento. Sono i soggetti con i quali si identifica oggi la Repubblica dopo le modifiche del titolo V della Costituzione che tanto turba e irrita taluni commentatori e animatori dei comitati toscani. Ci sono insomma dei paletti che nessuno oggi può svellere a proprio uso e consumo per rifarsela ora con le regioni e ora quasi sempre con i comuni considerati una vera sventura a cui si può rimediare solo riportando tutto nelle calde e accoglienti alcove ministeriali; ossia quello stato persona che non ha nulla a che fare con lo stato ordinamento di cui parla la Corte. Ma se non si vuole tornare a quel separatismo statale oggi peraltro palesemente incostituzionale come non si stanca di ribadire la corte quando richiama specie per l’ambiente la sua non riducibilità a specifica materia in quanto valore trasversale e quindi da gestire cooperativamente, bisogna finalmente imboccare la strada non della contrapposizione istituzionale per riafermare supremazie non più riproponibili, ma del confronto e del concerto. A nessuno naturalmente è bene dirlo subito a scanso di equivoci sfugge la complessità e difficoltà di questo delicato passaggio specialmente in una fase di evidente travaglio del sistema istituzionale chiamato peraltro a dotarsi di un nuovo codice delle autonomie che si presenta davvero non facile. Questo passaggio come abbiamo visto nel dibattito di questi mesi in Toscana presenta almeno due aspetti sui quali non si è riusciti finora a fare chiarezza. Il primo è senz’altro quello relativo alla cooperazione che non può escludere e tagliar fuori nessuno livello istituzionale purchè si riesca poi a seconda dei problemi a individuare la sede più giusta e adeguata per le decisioni finali. E come questa sede o livello non può essere sempre lo stato ciò vale anche per gli altri livelli comune compreso. Per la pianificazione o programmazione regionale che non può evidentemente ignorare o saltare i momenti nazionali ma soprattutto quelli inferiori si è parlato anche in Toscana di filiera. Dibattito che si è intrecciato malamente con le confuse sortite ora sulle province ora sulle comunità montane. Se non è stato facile individuare a quale livello di maggiore “giustezza” collocare funzioni e competenze lo è stato ancor di più individuare i raccordi tra impostazioni che potrebbero rischiare di diventare a “cascata” e quelle pianificazioni non di settore ma speciali come i parchi e le aree protette e i bacini idrografici. E qui torna anche il paesaggio che gira gira dopo Monticchiello sembra riapprodato in sede ministeriale complice anche il Codice Urbani perdendo per strada quei radicamenti, intrecci e simbiosi locali di cui abbiamo parlato. Ciò che convince di meno in questa sorta di forzato e un po’ precipitoso trasloco romano è che della realtà e esperienza toscana si siano persi per strada i risultati conseguiti grazie al ruolo delle aree protette. Quelle di cui parla Boitani ma anche Gambino quando nell’esempio dei parchi hanno visto e vedono proprio il realizzarsi di quella saldatura e integrazione tra paesaggio, natura e ambiente. A nessuno è venuto in mente nel gran baccano sulla Val d’Orcia di ricordare che tre parchi regionali e tre parchi nazionali e tanti altre aree protette anche da rivedere come le ANPIL rappresentano pur qualcosa anche in rapporto alla tutela del paesaggio toscano. Facciamo un esempio non toscano ma recente che forse ci aiuta a cogliere i rischi di una involuzione istituzionale culturale su questo punto. La regione Piemonte ha istituito ai primi dell’anno un nuovo parco fluviale regionale in provincia di Cuneo e in base alla sua collaudata legge assegna all’ente di gestione la messa a punto del piano del parco che comprende da sempre anche gli aspetti paesistici. L’avvocatura della stato con insolita sollecitudine impugna il provvedimento per contestare al parco di occuparsi del paesaggio che è roba del ministero in base al nuovo codice. Parco fluviale significa soprattutto verificare i problemi della sicurezza del fiume, della bontà delle sue acque, del tipo di interventi si debbono effettuare che non ricalchino esperienze rovinose di imbrigliamenti cementificati etc. Una serie di questi aspetti il parco dovrà concordarli con l’autorità di bacino se esiste e il suo piano. E’ chiaro che parco e bacino debbono tener conto anche degli aspetti e effetti che tutto questo può avere sul paesaggio. Ora invece lo stato dice no, di questo non debbono occuparsene il che significa che verrà meno la indispensabile contestualizzazione e integrazione di scelte e interventi per rimandare ad altri e ad altri tempi un intervento “separato” non in grado sicuramente di cogliere quegli intrecci a cui sono preposti il parco e eventualmente il bacino. Possiamo tranquillamente rientrare in Toscana e chiederci se il parco di Migliarino, San Rossore Massaciuccoli deve dire la sua sull’Arno o sul Serchio che si trovano sul suo territorio che il parco deve gestire con piano non di settore ma unitari e integrato come avviene da anni. E tutta questa matassa a Cuneo come in Toscana è riducibile a fatto estetico o panoramico? Ecco perché se appare del tutto inaccettabile una politica nazionale che tramite il ministero e i nuovi codici riproponga una separazione che non gioverà a nessuno né a Monticchiello né a Cuneo e lo è non di meno la emarginazione dei parchi e delle aree protette in quella pianificazione regionale configurata dal PIT che finisce per considerare parchi e bacini settori e non speciali ambiti di una pianificazione ambientale che ofre quei livelli di “giustezza” e adeguatezza non rinvenibili sempre né nel comune, della provincia o della stessa regione.