à impressionante ormai il tempo in cui la politica riesce a bruciare temi e argomenti. Il tempo di un titolo sul giornale (nel 90% dei casi incapace anche solo di aprire una polemica) e via. Via senza lasciare traccia. Traccia concreta, tangibile dico. L’apertura di un serio dibattito, invece del solito scontro tra slogan e luoghi comuni. E uno dei luoghi comuni più abusati è ormai diventato quello della mancanza di ‘politiche territoriali’, di ‘radicamento’ riferita ai politici o ai movimenti che rappresentano.
Intendiamoci, il problema è tutt’altro che inesistente. Al contrario. Ma infastidisce la superficialità e la sciatteria di chi lo sbandiera, magari proprio da qualche salotto televisivo, che ne rappresenta intrinsecamente la negazione, senza alcuna capacità (forse addirittura… volontà ) di declinarlo nelle sue complesse dimensioni (non a caso plurale) fattuali. In pratica senza mai entrare nel merito.
I ‘territori’ però, quelli non possono accontentarsi delle petizioni di principio o dei facili proclami. Hanno invece bisogno di… politica. Proviamo a ricominciare allora.
C’è un drammatico bisogno di un cambio di marcia. La crisi economico-finanziaria esplosa nell’ultimo anno ha solo accelerato l’emersione dei ‘difetti’ del modello di sviluppo a cui ci eravamo supinamente votati. Tra questi però ve ne sono alcuni che con le politiche per il territorio hanno molto a che fare. Ad esempio: da un lato la concentrazione delle aree produttive e la conurbazione forzata nelle aree metropolitane, sommata alla immigrazione, ha già causato e continua a causare crescenti tensioni sociali mentre, dall’altro, lo spopolamento dei territori periferici determina il loro progressivo degrado, sia sotto il profilo sociale e culturale – perdita di identità , spaesamento, invecchiamento – ma anche fisico e della qualità dei loro prodotti. E non pensiamo solo alle salamelle o alle delizie enogastronomiche (che comunque rappresentano una ricchezza certamente non irrilevante, ancorché poco esplorata nelle sue potenzialità economiche). Pensiamo, rivolgendo ad esempio l’attenzione verso i territori montani, alla sicurezza idrogeologica, alla qualità delle acque e alla loro regimazione, da cui dipende l’alimentazione primaria di una miriade di funzioni produttive che stanno a valle e che lì producono il loro valore aggiunto.
A fronte di tutto ciò, la politica che cosa elabora? Mirabilia: politiche per il contenimento della spesa e la ‘semplificazione’â¦e giù luoghi comuni: la superfetazione degli enti, la sovrapposizione delle funzioni, la riduzione dei costi… tutto per non restare indietro nella rincorsa alla virtù del risparmio invocata dal popolo minaccioso con la forca in mano! Naturalmente tutto con la mannaia. E allora, in tempi di federalismo, cosa si fa? Si riduce. Si riducono i trasferimenti, si riducono le indennità degli amministratori, si riducono le assemblee elettive nei comuni, si tagliano gli ‘enti intermedi’, quindi l’autonomia organizzativa delle funzioni, e si riducono gli spazi di democrazia locale.
E la spiegazione, politica, è molto semplice: ‘sì, sì, capisco… la specificità dei territori (montana, costiera, rurale)… ma ci sono pochi soldi… e, quindi, dobbiamo ridurre, tagliare’. Tagliare e risucchiare al centro. Naturalmente il centro non è chiaro quale sia: la Provincia, la Regione, il governo centrale. Ridistribuiremo le funzioni fondamentali, si dice. Insomma: abbiamo avuto una fase di espansione della democrazia non necessaria, inefficiente e alimentata dalla spesa pubblica, che ha aumentato le articolazioni territoriali. Ora la festa è finita e, quegli stessi che l’hanno alimentata, ora, altrettanto paternalisticamente, ne predicano la riduzione. Questa è bella. Come se gli altri livelli amministrativi avessero dato migliore prova di sé. Come se i grandi centri di spesa (e di spreco…) non fossero proprio nei grandi Comuni (Roma, Taranto, Catania, Palermo) e nelle loro società per la gestione dei servizi pubblici, nelle Regioni (sanità , rifiuti) o nei Ministeri e negli ineffabili grandi enti di stato, molti dei quali ignoti alla più parte dei cittadini. Esattamente dove, oggi si dice, si sarebbe potuto conseguire le famigerate ‘economie di scala’. E la cosa più bella è che, il ‘centro’, dall’alto della sua sontuosa (in)efficienza starebbe lì a dare patenti di merito e/o di legittimità alle articolazioni periferiche e a distribuire le sempre più scarse risorse pubbliche: alle Comunità Montane no, alle Unioni di comuni sì (che differenza ci sarà poi…), ai Bim no, ai consorzi di bonifica sì… e così via, come sfogliando una margherita.
Naturalmente salvando quelle rappresentate dalle lobby sindacal istituzionali più forti e che, invariabilmente, finiranno per continuare ad alimentare la spesa pubblica, forse peggio di ora, come diversi studi dimostrano.
Ora, su questo punto ci sembra giunto il momento di dire qualcosa di nuovo, di originale, perché qui il mondo sta cambiando, e noi continuiamo a replicare gli stessi modellini burocratico amministrativi. Le istituzioni, come pensate e organizzate finora, non funzionano. Sono strutturalmente inadeguate a svolgere efficacemente le azioni di promozione e sviluppo dei territori che sempre più rivendicano come funzione propria fondamentale, soprattutto oggi, che non si può più alimentarle con la spesa pubblica.
Le istituzioni, specie quelle locali, devono essere allora ripensate in una logica produttiva. Devono progettare le funzioni che si candidano a gestire, devono calcolare il loro valore (comprese le esternalità positive e negative) e negoziare il loro esercizio, rivendicando l’assegnazione dei cespiti cui si riferiscono. Negli spazi rurali e montani del Paese questi cespiti si chiamano oggi soprattutto suolo, aria e acqua. Vi sembra poco? Sono le risorse più preziose e ricercate oggi a livello globale. In pratica si tratta di passare da una logica ‘contributiva’ ad una logica ‘retributiva’. Un po’ come nella riforma previdenziale.
Si può fare? Non si può fare? Non ne siamo sicuri. Ma la sfida è questa oggi. Non certo quella di lambiccarsi con la redistribuzione delle funzioni tra enti, raccontandoci e facendo finta di credere che le Unioni sono meglio delle Comunità montane, che sono meglio delle associazioni. Come se tutto il resto funzionasse a meraviglia.
Le nostre tesi iniziano ad essere discusse in sede accademica e scientifica e l’interesse che hanno destato in un folto e molto qualificato gruppo di studiosi di diverse discipline è decisamente incoraggiante. Tanto che diversi ricercatori hanno contribuito all’operazione editoriale promossa da Uncem con AREL e il Mulino (La sfida dei Territori nella Green Economy). Un Manifesto politico redatto e pubblicato con lo scopo di attirare l’attenzione sulla necessità di una nuova, vera politica per i territori e di costituire una griglia metodologica per l’avvio di un grande piano di ricerca e di sperimentazione. Un piano che parte dalle numerose realtà istituzionali degli spazi rurali e montani che già si muovono su questo terreno, che hanno accolto la sfida e investono, produttivamente, sulla gestione ambientale, sulle fonti rinnovabili, sul risparmio energetico, sull’edilizia sostenibile, come fattori di sviluppo.
Non si tratta più, quindi, di difendere astrattamente la dimensione normativa e formale che legittima un ente, la sua istituzione, la sua costituzionalizzazione, il suo profilo giuridico. à finita l’era del sindacalismo istituzionale, anche se gli ultimi colpi di coda, per chi passa vicino, sono dei fendenti mortali.
Si tratta invece di mettere in discussione strutturalmente l’organizzazione delle funzioni locali e ridisegnarle secondo una logica nuova e ‘produttiva’: un progetto per l’intero Paese che non può che essere condiviso con tutti gli attori del sistema, a partire dalle organizzazioni di rappresentanza delle Autonomie Locali. Posizioni, tra l’altro, che hanno trovato una elaborazione sistematica negli studi di Elinor Olstrom, tali da farle guadagnare il Nobel per l’economia. La rivoluzione che la Olstrom propone, affermando la concezione policentrica del settore pubblico, dove i cittadini diventano propulsori di soluzioni in un mix di talenti e risorse locali, è esattamente il paradigma che riteniamo debba affermarsi per garantire uno sviluppo equilibrato del territorio, in chiave sociale ed economica, restituendo centralità alle comunità locali. Una prospettiva nuova, che l’Uncem sta anticipando, modificando dall’interno la propria natura. In questa nuova prospettiva, il ruolo che ci stiamo preparando a giocare non sarà più quello di ‘sindacato’ degli enti rappresentati, ma sempre più dovrà configurarsi come uno strumento di servizio, di accompagnamento, di consulenza e assistenza alla trasformazione degli enti e al loro adeguamento alle sfide delle nuove economie territoriali.