L’anno europeo delle pari opportunità  si è appena concluso e anche noi donne del profondo sud siamo qui a chiederci quali benefici concreti e reali prospettive di sviluppo potrà  produrre il fiume di parole speso nell’oratoria da convegno, particolarmente prolifica, degli ultimi mesi. Anche in Calabria, nonostante i vari e pressanti problemi che spesso salgono agli onori della cronaca, esiste una classe sociale che si preoccupa del domani, che si vuole allontanare dalla mentalità  del malafare e dell’assistenzialismo, che troppo spesso continuano a frenarci, ma soprattutto esistono delle donne che hanno preso coscienza delle loro capacità  e dei loro diritti e che si considerano la parte sana del territorio, la risorsa ancora inespressa che può imprimere la svolta concreta. L’emanazione, nel 2007, di una legge regionale contro la violenza alle donne, gli sforzi compiuti da singole donne impegnate in prima linea e quelli meritevoli di tutti gli organismi di parità  presenti sul territorio volti a sensibilizzare, con azioni positive e concrete, coloro (i più) che spesso sono sordi a tale tematica, non possono certo considerarsi risolutivi di una disparità  evidente e siamo ancora ben lontani dal modello di equità  che l’Unione Europea pone ormai da anni come obiettivo primario e trasversale per la realizzazione di una società  pienamente solidale e competitiva. Le donne calabresi, spesso dipinte come sottomesse e inutili, poco istruite tanto da non riuscire neanche ad esprimersi nella lingua nazionale o, ancor peggio, completamente vestite di nero e possibilmente con il capo coperto a piangere figli o mariti morti ammazzati, non sono queste. La voglia di riscatto esiste ed è spinta più che dall’ondata femminista, altrove travolgente e qui appena sfiorata, da esempi propriamente nostrani di donne dalla tempra forte e rigorosa che, sia pur sommessamente, sono riuscite dai tempi passati ad afermare valori e tramandare virtù. Esiste oggi tutta una “classe” di donne impegnate e attive, che studiano, che lavorano, che si impegnano nel sociale e che si prodigano a dare il proprio valido contributo alla vita pubblica. Ma le politiche del lavoro muovono con fatica i loro passi e siamo ben lontani dai parametri comunitari imposti riguardo l’occupazione: le donne lavoratrici devono costantemente fare i conti con volontà  e realtà  che impediscono loro una crescita determinante, e molte sono quelle che devono adattarsi al lavoro nero o a forme di lavoro mal retribuito o precario. E anche quando esistono strumenti che vorrebbero favorire la spinta di crescita, spesso non bastano, se si pensa che le agevolazioni per la

unicamente il prestanome di uomini, di fatto titolari di aziende. Eppure l’occupazione della donna in mestieri e professioni tradizionalmente maschili si va oggi realizzando, ma quante donne ai posti di comando? Ricercare le motivazioni di questo fondamentale limite può apparire complesso, ma in realtà  vi sono dei punti di debolezza chiari a tutti. A parte l’atavica disuguaglianza tra i sessi, vi sono delle motivazioni di ordine pratico dalle quali non si riesce a prescindere ed altre, costituite da quella barriera di strutture sociali e mentali, che non è facile rimuovere. La donna del sud, per la quale la famiglia è ancora un valore ed i figli una priorità , trova un forte freno alla propria realizzazione professionale nella difficoltà  di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, se si pensi che non esistono adeguate strutture di sostegno, che le leggi ad hoc create in tal senso (vedi L. 53/2000) qui hanno prodotto iniziative che sfiorano lo zero, che i datori di lavoro locali considerano la maternità  un malanno e che in generale manca addirittura l’interesse e la sensibilità  a cercare valide soluzioni, conciliabili con le preoccupazioni che ogni donna, soprattutto madre, vive istintivamente. Già  solo questo basta a far sì che le donne abbiano innanzitutto redditi molto meno elevati rispetto agli uomini, non dirigano i reparti ospedalieri, non siano imprenditrici, non siano le dirigenti dei vari uffici o non ricoprano in politica ruoli di rilievo, che continuano a restare appannaggio degli uomini che, abituati a stare fuori casa da sempre, sentono le responsabilità  familiari meno pressanti. Le ragazze del sud non sempre pensano solo a prender marito, come si crede, ma neanche tutte aspirano a fare le veline: molte sono quelle che studiano e si “guardano intorno”, anche con risultati eccellenti e superiori rispetto ai loro colleghi maschi, ma tuttavia non avvertono questa disuguaglianza, salvo poi a trovarsi spiazzate nell’impatto con la realtà  da adulte. Anche questo è un limite, perché nella spensieratezza giovanile e nella completa disillusione circa i valori reali, che noi contribuiamo ad alimentare, l’alternativa rimane sempre quella della ricerca di afermarsi altrove, privando il territorio di quelle punte d’eccellenza fondamentali per uno sviluppo reale e di qualità . Così le migliori vanno a riempire gli uffici, le scuole, gli ospedali e le aziende del nord, dato che per noi fare le valigie non è poi così difficile, e l’amore per la famiglia e la terra è superato da un’antica rassegnazione ad essere”emigranti”. Come in generale la meritocrazia vale ben poco, per le donne quest’assunto diventa più preoccupante, aggravato dal fatto che la società  non è pronta ad accoglierle totalmente. E se anche gli sforzi esistono, così come le menti illuminate che vedono il futuro in rosa, cosa conta voler rappresentare un’esigenza di partecipazione alla vita politica, se poi le liste elettorali “miste” producono una serie di risultati scadenti accanto ai nomi femminili? Se le donne stesse non hanno ancora acquisito quella coscienza che “fare squadra”, guardare liberamente al domani, e alla possibilità  di dare un contributo alla società , senza necessariamente uniformarsi a modelli e riferimenti maschili, è un’esigenza pressante e necessaria? Così il risultato è sempre lo stesso: i vari consigli e le giunte locali vedono una partecipazione femminile ridottissima e a coloro che ce la fanno vengono afdati i soliti assessorati alle pari opportunità  o al massimo alle politiche sociali, per cui una politica vera e reale che pensi alle donne e ne valorizzi le diversità  e le peculiarità  da chi dovrebbe essere costruita? Ma forse questo non è solo sud, ma è anche Italia, la stessa Italia che si piazza intorno all’ottantesimo posto nella classifica mondiale sulla condizione delle donne!