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Governo della paura e governo delle città . Una ‘recensione’ a Jonathan Simon con discussione

Il tema della sicurezza e della paura è ormai da alcuni anni al centro del dibattito politico nel nostro paese, dell’informazione giornalistica, dell’analisi sociologica. I ‘programmi’ di contrasto all’insicurezza e alla criminalità  sono stati al centro della campagna elettorale già  nelle elezioni locali 2007 e sono ritornati nella campagna 2008, il più delle volte coniugando il tema della sicurezza con quello del contrasto ai comportamenti criminali di minoranze etniche immigrate (zingari, rumeni ecc.). Dopo una pausa nella seconda parte del 2008, l’attenzione al tema è tornata molto forte nella primavera del 2009 (elezioni europee) e poi alla fine dell’anno in previsione delle regionali.

Malgrado questa attenzione e alcuni primi provvedimenti locali e nazionali, la percezione di insicurezza da parte dei cittadini si è andata dilatando, come testimoniano numerosi sondaggi. E ad alcuni, ormai pochi, osservatori inguaribilmente abituati a confrontare le proprie opinioni con i dati empirici, continua a risultare incomprensibile come la percezione di insicurezza sia più marcata dove minore o addirittura in calo è la presenza di reati.

La traduzione di un bel libro di Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità  e democrazia in America, Raffaello Cortina, 2008, apre un significativo squarcio nell’apparente incomprensibilità  di queste tendenze: il titolo originale, come spesso accade, esprime già  in modo compiuto la tesi del libro Governing Throught Crime. How the War on Crime Trasformed American Democracy. Ne riporterò le tesi più importanti, per poi ipotizzare una serie di tendenze destinate a manifestarsi anche nel nostro paese (i primi segni ci sono già  tutti), con particolare attenzione ai problemi di governo delle città .

Criminalità  e governance americana

Anzitutto il libro di Simon documenta che il ‘governo attraverso la criminalità ’ non è un’invenzione della Lega, ma inizia negli Stati Uniti già  alla fine degli anni ‘60. ‘Gli americani hanno costruito un nuovo ordine civile e politico strutturato intorno alla questione della criminalità  violenta. In questo nuovo ordine, valori quali eguaglianza e libertà  sono stati ridefiniti in termini che sarebbero stati sconvolgenti, se non del tutto impensabili alla fine degli anni â60, mentre nuove forme di potere si sono istituzionalizzate e radicate: tutto in nome della repressione di ondate di criminalità  apparentemente infinite’ (stiamo parlando di un periodo ben antecedente la guerra al terrorismo a seguito dell’11 settembre).

Anche negli Stati Uniti per lungo tempo criminologi e sociologi hanno cercato di documentare come questa paura della criminalità  e della violenza fosse irrazionale, ‘ma anche qualora il pubblico prendesse seriamente in considerazione le basi empiriche di questa posizione, sarebbe poco ragionevole aspettarsi che l’ordine civile costruito attorno alla criminalità , in America, si possa dissolvere in poco tempo’. Questo è il punto-chiave: attorno alla lotta alla criminalità  è stato costruito un nuovo e coerente ordine civile, che non necessariamente ha a che vedere con la criminalità .

La tesi di Simon, quindi, è che il ‘governo attraverso la criminalità ’ rappresenta un nuovo modello di governance, che si afferma gradualmente sulla crisi della governance consolidatasi con lo ‘stato sociale’ prodotto dal New Deal. Negli anni ‘60 l’ordine politico uscito dal New Deal entra progressivamente in crisi (guerra del Vietnam, movimenti studenteschi, movimenti per i diritti civili ecc.) e la classe politica (in modo bipartisan, questo è rilevante) incomincia a guardare alla criminalità  come ad uno strumento per creare un nuovo ordine, prima ancora dell’aumento dei tassi di criminalità  effettivamente avvenuto a fine decennio: è importante sottolineare che negli USA, e probabilmente anche in Italia, l’opinione pubblica ha seguito e non alimentato la mobilitazione del mondo politico sulle tematiche della sicurezza. Ciò è avvenuto non per un disegno macchiavellico pianificato da qualcuno, ma perchè la mobilitazione sulla sicurezza e contro il crimine ha consentito di ‘creare’ risorse e fornire benefici in modo più semplice e ‘redditizio’ che tramite altri canali.

Il governo attraverso la criminalità  produce nuove risorse di legittimità  per una classe politica in crisi. ‘Da Roosvelt fino a Reagan i presidenti hanno proposto un’immagine di sè quali depositari di un sapere e di una tecnologia diplomatico-militare capaci di assicurare prosperità  e sicurezza a tutti gli americani dotati di buona voltà ’. Gli scandali e le menzogne che hanno coinvolto il vertice politico hanno minato la fiducia nell’esecutivo, nel modello di autorità  del New Deal e verso le varie forme di expertise che un tempo compendiavano tale leadership, come l’economia, la sociologia, la psicologia, la criminologia. L’accusatore, il pubblico ministero rappresenta un nuovo modello di leadership (agli italiani viene in mente qualcosa?) e non a caso nella nuova fase negli USA molti sindaci di successo e molti governatori vengono da una precedente esperienza di attorney. Le campagne elettorali sono diventate delle competizioni sulla propensione ad assumere un ruolo accusatorio. ‘I leader dell’esecutivo raggiungono il culmine nell’esercizio della propria autorità  quando si cimentano nell’additare il male e nell’imputarne la responsabilità  a qualcuno’ e nel definire ogni minaccia pubblica â dall’analfabetismo, alla crisi economica, dall’aumento dei prezzi alla carenza di alloggi, dal traffico alle armi di distruzione di massa â come una vittimizzazione personale inflitta da individui malvagi e corrotti (con ciò deresponsabilizzandosi ed abdicando a quello che dovrebbe essere il proprio ruolo di risolutori di problemi collettivi).

Anche in Italia il successo dei cosiddetti ‘sindaci-sceriffi’ (di centro-destra, ma anche di centro-sinistra) nasce da una dinamica simile e non a caso si sviluppa dopo il consolidamento e l’interiorizzazione a livello di elettorato dei mutamenti apportati dall’elezione diretta.

Il governo attraverso la criminalità  produce nuove risorse di identità  per le persone in una fase nella quale l’erosione delle risorse tradizionali risulta ormai elevata: il mito della frontiera, l’orgoglio della supremazia mondiale derivante dalle vittorie belliche, la prospettiva dell’integrazione razziale ecc. La ‘nuova classe media di consumo’ tende a stemperare le identità  basate sul lavoro e sulla classe sociale, mentre la promessa dell’integrazione razziale continua a rimanere una promessa scarsamente mantenuta.

A queste difficoltà , il ‘governo tramite la criminalità ’ offre una nuova opportunità , che tende ad omogeneizzare e ad identificare valori e interessi comuni tra i cittadini in quanto vittime (reali o potenziali, non fa una grande differenza) di un crimine. ‘Chi siamo noi? Le vittime!’. Venendo ad anni più recenti, negli Stati Uniti ed ancor più in Italia, si capisce subito che tale fattore di identità  si sposa in modo immediato con i processi di invecchiamento della popolazione. Non c’è dubbio che l’affermarsi del ‘governo della paura’ si sposa con l’epoca di ‘passioni tristi’ che sembra caratterizzare il nostro tempo: sfiducia, impotenza, disgregazione, rancore1.

Il governo attraverso la criminalità  detta una nuova agenda ed un diverso modo di definire i problemi sociali. Il compito della giustizia non ‘è più’ quello di garantire un processo ‘giusto’, gestito da un giudice ‘terzo’, ma quello di trovare e punire i colpevoli e metterli nelle condizioni di non nuocere. I giudici ‘garantisti’ vengono messi sotto accusa sui giornali e i loro poteri limitati (attenzione! stiamo parlando degli Stati Uniti…).

Le carceri non sono luoghi, ammesso che lo siano mai stati, deputati alla riabilitazione del condannato, ma ‘discariche’ nelle quali depositare i ‘rifiuti’ della società . La popolazione carceraria negli Stati Uniti continua ad aumentare: nel 2008 un cittadino americano adulto su 100 risultava essere in prigione (2,3 milioni di detenuti e 7,2 milioni di individui sottoposti a qualche forma di controllo penale o carcerario). In tale popolazione i neri fanno la parte del leone, cosicchè secondo le attuali tendenze un maschio nero su tre finirà  in galera durante la sua vita (c’è chi sostiene che l’incarcerazione di massa è stata la ‘vera’ risposta alle politiche di desegregazione degli anni ‘60…). L’assistenza sociale non è un diritto di cittadinanza, da gestire per risolvere casi umanamente e socialmente delicati, ma un ‘premio’ che si rischia di perdere a fronte di comportamenti devianti. La scuola ha come compito primario quello di garantire la sicurezza dei giovani e di impedire che accedano a comportamenti delittuosi, piuttosto che quello educativo e formativo. Simon esamina molto dettagliatamente ciascuna di queste tendenze, riportando gli atti legislativi che esprimono gli orientamenti indicati e le ‘interpretazioni’ da parte dei diversi Stati.

Paura e governo delle città 

La governance della paura nel nostro paese (e nelle nostre città ) è ancora allo stadio iniziale (ancora una volta ci troviamo ad imitare quello che accade negli Stati Uniti con una trentina d’anni di ritardo), ma gli indizi dell’emergere di questo paradigma ci sono tutti, e stanno manifestandosi tutti insieme, rapidamente, in particolare negli ultimi due anni (2008-2009).

I fatti di violenza giovanile, che fino a poco tempo fa erano letti come sintomi di un disagio, sul quale intervenire in primo luogo con politiche educative e di prevenzione (penso al nascere delle ‘politiche giovanili’ a partire dagli anni ‘80), oggi sono letti prevalentemente come comportamenti delinquenziali da punire severamente, essendo la punizione l’unico modo per evitare il reiterarsi del fatto. Possiamo aspettarci in futuro uno sviluppo di tali tendenze, con interventi sulla punibilità  dei minori e la limitazione del ruolo dei Tribunali dei minori (è già  avvenuto negli USA e nel Regno Unito).

La ‘scoperta’ del basso rendimento delle politiche educative e scolastiche diventata di dominio pubblico a seguito dell’ultima indagine PISA, invece di interrogare la politica sui ritardi e le inadeguatezze delle politiche scolastiche e l’insufficienza degli investimenti nel settore dell’educazione, sta ponendo la ‘punibilità ’ (di insegnanti ed alunni) come cardine di un intervento migliorativo (le declinazione concreta della ‘meritocrazia’ non sta già  andando in questa direzione?). Il miglioramento dei risultati scolastici è stato affidato in primo luogo al voto di condotta e al grembiule; la diagnosi sullo stato della scuola è stata connessa alle ‘colpe’ degli insegnanti fannulloni; e da ultimo alle denunce dei dirigenti scolastici per i finanziamenti insufficienti dell’attività  ordinaria, è stato risposto consigliendo loro di cambiare mestiere, vista la manifesta inadeguatezza gestionale.

Più in generale, un ciclo di riforme sul basso rendimento delle nostre Pubbliche Amministrazioni iniziato, con risultati in parte positivi e molto spesso insufficienti, a partire dall’inizio degli anni ‘90, che ha toccato aspetti istituzionali, di gestione del personale, di ruolo dei dirigenti, di sistemi di pianificazione e controllo, viene spazzato via dalla discussione pubblica e sostituito, con grande successo mediatico, dall’individuazione della causa fondamentalmente nei ‘fannulloni’, puniti i quali il problema sarebbe risolto e il risultato di riforma raggiunto.

Anche nell’ambito delle politiche famigliari e di welfare, il forse inevitabile superamento dell’universalismo in direzione di una maggiore selettività  potrebbe assumere il volto del riconoscimento ai ‘meritevoli’, intendendo per meritevole chi non si macchia di colpe gravi come reati penalmente perseguiti (già  nelle politiche della casa la selettività  nei confronti di segmenti specifici di popolazione, come gli immigrati, pone le premesse per andare in questa direzione).

Il governo delle città  verrà  sempre più orientato dalle tematiche della sicurezza (mi riferisco alle città  del Centro-Nord; al Sud, come è noto, il problema criminalità  si pone in modo radicalmente diverso). La visionarietà  dei piani strategici a lungo termine si troverà  a fare i conti con la sedicente concretezza dell’attenzione ai ‘veri problemi della gente’. Dopo i canoni ‘padani’ per l’arredo urbano (le panchine che impediscono agli homeless di sdraiarsi a dormire), anche i progetti di intervento urbanistico verranno valutati all’interno di quell’universo culturale: l’urgenza di porre fine al degrado e allo spaccio di droga giustificherà  (sta già  cominciando a giustificare) qualsiasi speculazione in quartieri da ristrutturare e lo sviluppo di gated community, sorvegliate da guardie private, rappresenterà  il business immobiliare del futuro. Per il momento le ‘ronde’ rappresentano una variante in salsa padana dello polizie private, sviluppatesi in molti paesi. Ad un anno dalla loro istituzione, ne è evidente il fallimento, segno forse anche di un fondamentale buon senso nei cittadini, che non si fanno coinvolgere operativamente nelle strumentalizzazioni degli strateghi della paura. Ma immediatamente il tema viene mediaticamente rilanciato proponendo a Milano le ‘sentinelle di quartiere’.

E’ possibile contrastare questa tendenza?

Possiamo chiederci, con Simon, se la produzione di un vasto numero di detenuti migliori la governabilità  delle città  e delle periferie urbane, delle comunità  e delle famiglie. Se i programmi di leadership che enfatizzano la punitività  rendano il potere più o meno responsabile. Se la famiglia esca rafforzata da interventi anche tecnologicamente sofisticati (test antidroga obbligatori ecc.) che escludano i rischi di droga e violenza. Se l’efficacia delle politiche educative venga rafforzata semplicemente dalla ‘severità ’ della selezione. Se gli obiettivi delle politiche assistenziali vengano raggiunti in modo più efficace sulla base di una selettività  basata sul ‘merito’ individuale.
Ma il dubbio più rilevante è che il governo attraverso la criminalità  consumi la capacità  democratica nella misura in cui distrugge la fiducia e il capitale sociale, e nel tempo stesso non aumenti la percezione di sicurezza dei cittadini e l’effettiva sicurezza delle città .

Dobbiamo probabilmente ri-metterci d’accordo su a che cosa ‘servano’ le politiche pubbliche. Secondo la versione più comunemente accettata2, una politica pubblica è l’insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti, che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo di interesse pubblico.

La ‘politica della paura’ e il governo attraverso la criminalità  hanno dimostrato la loro inefficacia rispetto al problema ‘ufficiale’ (la sicurezza) dal quale traggono origine e legittimità . Le analisi dei risultati delle politiche di ‘tolleranza zero’ dimostrano come i risultati veri, sul fronte sicurezza, si ottengano con un mix articolato di provvedimenti repressivi e di interventi che mirano a coinvolgere i cittadini e a sviluppare il senso civico (quindi contrastare la politica della paura non significa essere contrari a specifici provvedimenti orientati ad una maggiore severità  o certezza della pena).

Ma la ‘politica della paura’ e il governo attraverso la criminalità  hanno un effetto devastante rispetto al ruolo chiave che ha la fiducia nel mantenimento della coesione sociale e nello stesso sviluppo economico. Come insegnano i grandi maestri dell’economia e come confermano le crisi bancarie dello scorso anno, senza fiducia non c’è possibilità  di sviluppo del mercato e dell’economia.

Contrastare il populismo, che semplifica i problemi e chiude la bocca agli specialisti che tendono a mostrare le diverse e spesso contraddittorie facce della realtà , sembra (e forse effettivamente è) un’impresa impossibile. Appare più ‘facile’ o comunque possibile e conveniente cavalcare l’onda, talvolta in modo emulativo.

Certo il populismo trova terreno fertile nello screditamento della classe politica e nell’antipolitica trionfante. Ma non possiamo aspettare vent’anni (negli Stati Uniti, ci dice Simon, qualche dubbio sul governo attraverso la criminalità  comincia a serpeggiare, e forse l’elezione di Obama farà  emergere, almeno in parte, una governance diversa), perché gli effetti devastanti divengano evidenti a tutti.

Forse siamo ancora in tempo per una discussione pubblica, aperta e senza pregiudizi o schemi aprioristici, che dimostri la capacità  di distinguere gli interventi efficaci sugli effettivi problemi di sicurezza e paura (e forse solo una parte delle paure derivano da fatti criminali), dai modelli di governance e di società  che vogliamo costruire.

Note

1 L’espressione ‘passioni tristi’ è di Spinoza, ed è ricordata in un libro di due psicologi M. Benasayag e G. Schmitt, L’epoca delle passioni tristi,

Feltrinelli, Milano, 2004.

2 W.N. Dunn, Public Policy Analysis. An Introduction, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, 198

Governo della paura e governo delle città . Una ‘recensione’ a Jonathan Simon con discussione2011-01-14T19:08:11+00:00

Verona tra ambizioni metropolitane e microlocalismi

Le elezioni del 27-28 maggio 2007 a Verona hanno visto una vittoria clamorosa del candidato leghista Flavio Tosi presentato dalla coalizione di centro-destra, che prevale ampiamente, ottenendo oltre il 60% dei voti sul sindaco uscente Paolo Zanotto, ricandidato dalla coalizione di centro-sinistra. Sconfitta del sindaco uscente alla fine del primo mandato, vittoria di un candidato leghista dopo una campagna centrata su sicurezza e localismo: al di là  del dato elettorale in senso stretto, questo risultato induce ad una serie di riflessioni non solo locali, che possono interessare i lettori di questa rivista. Verona: cittadina di provincia o potenziale metropoli? Sarà  bene in premessa ricordare alcuni caratteri e problemi di fondo della realtà  urbana veronese. La più recente ricerca comparativa OCSE, la Territorial Review on Italy (2001), mette in evidenza alcuni punti di forza e di debolezza di Verona in confronto con gli altri sistemi territoriali metropolitani italiani. Gli indicatori demografici e occupazionali confermano una posizione di forza di Verona che vede una crescita dell’occupazione e una dinamica demografica positiva, in particolare rispetto a Milano, Torino, Venezia, Genova, Trieste, Bologna, anche rispetto all’impatto dell’immigrazione, dei processi di invecchiamento della popolazione e di riduzione del ruolo e della dimensione della famiglia. La scolarizzazione è aumentata rispetto alla media nazionale, ma rimane indietro rispetto a Milano, Genova e Bologna, confermando che il Nord est ha consumato risorse umane in questi decenni di crescita mantenendo basse le credenziali educative della forza-lavoro. Per quanto riguarda le specializzazioni produttive, Verona si conferma una realtà  manifatturiera forte, anche se con un lieve calo del quoziente di localizzazione manifatturiera, mentre cresce la localizzazione terziaria, confermata dal raddoppio dell’occupazione nel settore. Insisto sulla dimensione propriamente urbana, perchè dal punto di vista territoriale e urbanistico, vale la pena di ricordare che non è mai esistita, nella coscienza dei ceti dirigenti della città , un’identità  regionale profonda e condivisa della quale Verona si sia sentita parte. Il Veneto, infatti, fino al secondo dopoguerra, è esistito come sommatoria di identità  urbane, con una profonda separatezza tra Venezia e la Terraferma, anche e di più con la nascita di Porto Marghera. I “confini” di Verona, come spesso accade, non coincidono con i confini amministrativi (comunali, provinciali, regionali). I sistemi di relazioni economiche e sociali, i percorsi dello sviluppo economico, le traiettorie della vita quotidiana delle persone (nello studio, nel lavoro, nel tempo libero) e alla fine le identità  territoriali poco hanno a che vedere con i confini amministrativi. Verona è sempre stata collegata in modo molto intenso non solo con Trento e l’asse Resia/ Brennero, ma per le attività  agricole e gli scambi commerciali (e familiari) anche con la Bassa e la Pianura e poi via fino alle Marche. Del resto Verona, a diferenza di altre città  venete, ha da sempre un ruolo “metropolitano”, che travalica i confini amministrativi comunali. Da sempre le funzioni urbane sono state concentrate nel comune capoluogo e il territorio circostante e i suoi abitanti hanno guardato alla città  come perno dei propri interessi e aspettative. Da questo punto di vista la fine del ruolo di Verona come città  militare, con il rilascio da parte dei militari di enormi spazi ed edifici di pregio nella città  storica, e la contemporanea disponibilità  alla riconversione di un milione e mezzo di metri quadri, per la ridislocazione da Verona Sud di una serie di insediamenti produttivi e dello scalo ferroviario, apre una serie di possibilità , ma anche lancia una sfida troppo grande per poter essere afrontata in chiave solo cittadina. Verso una scala più ampia di quella puramente comunale/cittadina spingono anche i progetti europei relativi alle grandi infrastrutturazioni dei corridoi del Brennero e del corridoio 5, e le potenzialità  dei flussi turistici dell’area Adige-Garda: Verona, il Garda e il Trentino fanno insieme 3,2 milioni di turisti l’anno (come Parigi). Non sempre i ceti dirigenti della città  sembrano consapevoli della sfida e disposti ad assumersene il rischio e la responsabilità . Questa difficoltà  ha molto a che vedere con il sistema della leadership locale, nei diversi ambiti, politico, economico, associativo. Il modello da cui Verona proviene, e al quale guarda ancora con nostalgia è quello di una piccola elite locale molto integrata, sul piano della cultura e dei valori, che ha costruito nel secondo dopoguerra le premesse allo sviluppo attuale. Questo modello ha retto la città  per decenni e si è dissolto bruscamente all’inizio degli anni ’90, senza aver trovato ancora, dopo oltre un decennio, una adeguata sostituzione. Frequentemente viene ripetuta la necessità , unanime, di “fare sistema”, di sviluppare la cooperazione interistituzionale e tra pubblico e privato, e altrettanto frequenti sono le lamentazioni sull’incapacità  del sistema locale di realizzare iniziative significative in questa direzione. Ma quale percezione hanno di queste problematiche i diversi soggetti della città ? La diagnosi della situazione veronese può essere arricchita prendendo in considerazione l’analisi SWOT condotta nella fase di elaborazione del Piano Strategico della Città  nel 2003, con 70 interviste a testimoni privilegiati, in qualche modo l’elite locale. L’analisi metteva in evidenza una forte convergenza di visione tra i diversi attori sullo scenario futuro della città , sui punti di forza e di debolezza, in particolare su quattro punti principali e interconnessi: * Il primo punto, percepito come la maggior forza di Verona, riguarda l’articolazione e il dinamismo dell’economia veronese. Verona non è una città  caratterizzata da una monocultura economica dominante: questo aspetto di varietà  ne garantisce la stabilità  in situazioni di incertezza economica e di crisi settoriali. Insieme al forte dinamismo imprenditoriale, è il primo punto di forza da cui partire. * Questa situazione si deve però leggere insieme al principale punto di debolezza evidenziato dalle interviste: la bassa cooperazione tra gli attori e la difficoltà  a fare sistema, di muoversi in maniera coordinata verso obiettivi comuni e condivisi, con un elite locale che non appare in grado di scegliere questo sentiero cooperativo. * Eppure gli stessi attori individuano nello sviluppo di una città  rete, ovvero nella creazione di collegamenti stabili e di connessione nell’area metropolitana e tra alcune città  con cui Verona è già  in relazione, un’opportunità  fondamentale per il futuro. * A fronte di questa opportunità  la maggiore minaccia appare l’asse possibile tra Venezia, Padova e Treviso. Oltre a questi quattro primi elementi, tra i punti di forza la posizione geografica veronese è confermata come una peculiarità  quasi naturale, anche se si fa notare come questa rendita di posizione è oggi potenzialmente sfidata da alcune innovazioni infrastrutturali che potrebbero far precipitare la città  in un semplice luogo di passaggio. Un altro punto di forza è indubbiamente la presenza di un associazionismo articolato e composito in tutti i settori del sociale, una forte vocazione agro-industriale, un forte sistema bancario e finanziario radicato nel territorio e in forte evoluzione. I punti di debolezza, oltre ai problemi di viabilità  e traffico, sono il livello di progettualità  e innovazione considerato insoddisfacente. Per altro verso, le attese dei cittadini, per come emergono dai risultati dei sondaggi effettuati dal Comune tra il 2004 e il 2005 e dai sondaggi prelettorali realizzati tra fine 2006 e inizio 2007, dimostrano, al solito, una focalizzazione sui problemi più immediati come sicurezza, traffico e mobilità : in assenza di problemi “oggettivamente” gravi (anche a Verona i reati e le denunce sono in calo; la vivibilità  della città  rimane molto più alta di gran parte delle città  di dimensioni analoghe), le preoccupazioni dei veronesi sembrano concentrarsi su quegli aspetti che possono ingenerare insoferenza nella quotidianità : code ai semafori, tempi per parcheggiare, accattonaggio e lavavetri. In sintesi, Verona presenta un contesto urbano con grandi potenzialità  e che è toccato da opportunità  rilevantissime; una popolazione abbastanza reclinata su se stessa e forse timorosa di perdere il livello di vita raggiunto da non molti anni; una leadership ambivalente negli orizzonti strategici e nella propensione alla cooperazione e all’assunzione di responsabilità . I risultati elettorali I risultati elettorali vedono, come dicevamo all’inizio, una vittoria del candidato leghista di centrodestra, con oltre il 60% dei voti. Nel Centro destra fa il pieno la Lista civica Tosi sindaco, rimangono stabili AN e Lega, mentre calano vistosamente UDC e soprattutto Forza Italia. Nel Centro sinistra il calo della coalizione penalizza tutte le liste, in particolare quelle non collegate al candidato sindaco, come Rifondazione. Come si arriva a questo esito? Non sembra che i risultati elettorali abbiano una stretta connessione con le policy realizzate a livello locale 1, ma semmai con la caratterizzazione politica complessiva dell’Amministrazione: cerchiamo di spiegarci meglio. L’Amministrazione si è impegnata in un intenso lavoro di progettazione del futuro della città , nel medio-lungo periodo, con un Piano strategico Verona 2020, il Piano di assetto del territorio e la Variante di Verona Sud. Alcuni progetti innovativi vengono avviati a partire da tale pianificazione: il Polo finanziario a Verona Sud, il Progetto Alzheimer, la ristrutturazione di un quartiere storicamente degradato (Borgo Nuovo) ed altri. Maggiore incertezza probabilmente si è manifestata sugli ambiti che richiedono cooperazione interistituzionale e diverse modalità  di governance (gli altri enti locali sono governati da maggioranze diverse politicamente): ad esempio solo nel 2007 prende finalmente avvio la società  per gestire gli interventi di marketing territoriale. La città  “più inquinata d’Italia” avvia il progetto Agenda 21, il Parco dell’Adige e la piantumazione di ampie fasce di terreno comunale. Vengono portati a termine i lavori di restauro di importanti edifici storici e culturali e pianificati gli ordinari lavori di manutenzione di strade ed edifici, con una specifica attenzione alle piste ciclabili. Le attività  e i servizi più tradizionali (in ambito educativo ed assistenziale) vengono consolidati, con un ampliamento dell’utenza, un miglioramento della cooperazione con i soggetti del terzo settore e le istituzioni educative ed una specifica attenzione all’integrazione degli immigrati. Le attività  culturali vedono la ristrutturazione della Biblioteca Civica, la realizzazione di alcuni grandi eventi ed il consolidamento delle tradizionali attività  di spettacolo lirico e teatrale. La modernizzazione della struttura comunale vede segnali molto concreti nella radicale riorganizzazione del front-office con i cittadini e con lo sviluppo di progetti di e-government tra i migliori in Italia. Ritardi ed incertezze invece si sono certamente verificati sulle iniziative inerenti la mobilità  e il traffico e la politica della casa. L’azione amministrativa per altro sembra avere avuto un riscontro positivo nei cittadini, che nei vari sondaggi (anche a poche settimane dalle elezioni) esprimono in ampia maggioranza fiducia e valutazioni positive nei confronti del sindaco uscente (che poi non si trasformano in decisioni di voto). Le valutazioni esterne sembrano pure molto positive: il Censis durante il mandato Zanotto colloca Verona tra le “città  aquila” e l’osservatorio della Bocconi esprime pure valutazioni molto positive. Complessivamente, quindi, una gestione “normale” del comune, eventualmente con alcune rilevanti novità  positive. Il dato elettorale va quindi approfondito e forse i flussi elettorali 2 possono aiutarci a comprendere meglio la dinamica del voto e la divaricazione tra valutazione sulle policy e sull’azione amministrativa e decisioni di voto. I risultati mettono in evidenza una situazione di fluidità  elettorale, nella quale probabilmente non vale più l’idea che c’è uno zoccolo garantito di elettorato rispettivamente per la destra e la sinistra e poi la competizione consiste nell’”acchiappare” l’elettorato moderato. Dall’analisi dei flussi elettorali emerge che Zanotto ha “preso” 4500 voti da UDC e AN, ma Tosi ben 11.000 dall’elettorato dell’Unione 2006 (in particolare da Rifondazione e Italia dei valori, ma anche Ulivo). Altri 10000 elettori 2006 dell’Unione si sono rifugiati nel non-voto, assieme a circa 9000 del centro destra (soprattutto di Forza Italia). In altre parole, lo schieramento che sosteneva Zanotto non è stato in grado, se non in minima parte, di intercettare il voto di quanti (più di trentamila elettori di CS e di CD) erano disponibili ed effettivamente hanno optato per un voto ad uno schieramento diverso dalle elezioni precedenti. Alcune ipotesi esplicative Certamente a Verona l’idea di avere un consenso garantito dalla buona azione di governo si è dimostrata infondata: la valutazione positiva non si è trasformata in scelta di voto. L’Amministrazione uscente riteneva che le “opere” avrebbero creato un consenso sufficiente, ma ci voleva anche la “fede”, e forse questa non è stata esplicitata e condivisa con la città . Sicuramente ha pesato il clima politico nazionale, sfavorevole allo schieramento dell’Amministrazione uscente (ancora una volta i sondaggi lo confermano), ma questo spiega solo una piccola parte del risultato. In realtà  la coalizione ha dimostrato in primo luogo di avere un radicamento sociale molto scarso. Colpisce il numero molto basso di preferenze ottenute nella maggioranza dei casi dai candidati delle liste collegate a Zanotto, confrontandole con quelle ottenute dai candidati delle liste di centrodestra. E’ noto che la preferenza significa molte cose, non necessariamente commendevoli; tuttavia è indubbio che il Centro destra è stato “in campagna” da anni, mentre l’accusa all’Amministrazione uscente di essere stata un po’ chiusa nel “palazzo” forse qualche fondamento ce l’ha. Questo rilievo generale va collegato ad un altro fatto fondamentale: la vittoria elettorale del 2002 era il risultato di un’alleanza del Centro sinistra con un pezzo della destra. Autosufficiente in Consiglio, il CS si è illuso di poter essere autosufficiente anche elettoralmente, mentre la Lista civica Zanotto Sindaco diventava sempre di più una lista locale di centro sinistra, piuttosto che il veicolo per traghettare a favore di Zanotto il voto politicamente di Centro destra. Probabilmente vi sono stati anche errori o sottovalutazioni nella campagna elettorale. Era prevedibile che la questione “sicurezza” sarebbe stata al centro dell’attenzione e invece non è stata messa in campo per tempo qualche iniziativa, anche puramente simbolica, sulla sicurezza. E’ stato lasciato al Centro destra il monopolio della scena della campagna elettorale fino a maggio, permettendo a Tosi di fare campagna sostanzialmente indisturbato, senza sfruttare la situazione di divisione del Centro destra per esplicitare proposte e realizzazioni, convincere e mobilitare l’elettorato di Centro sinistra. Ma tutto questo probabilmente non completa il quadro delle ipotesi esplicative. Qualcuno ha parlato di obiettivi troppo alti e lontani dell’Amministrazione Zanotto: ad alcuni esponenti politici locali è venuto il dubbio che siano state dedicate troppe energie alle tematiche “alte”, al governo della città  (Piano Strategico, PAT, Verona Sud), rispetto ai “veri problemi quotidiani della gente”. Alcuni politologi parlano di “populismo governante”, come forma necessaria della democrazia nella fase attuale: alludono, credo, alla necessità  di coniugare la capacità  di governo, di elaborazione e implementazione delle politiche, con il messaggio di identificazione con i problemi dei cittadini (magari senza afrontarli o risolverli effettivamente, poichè o sono irrisolvibili, come il traffico, o sono in una certa misura immaginari, come la sicurezza). I limiti della democrazia rappresentativa sono noti e a Verona sono stati vissuti in cinque anni di ostruzionismo allo stato puro in Consiglio comunale. Non necessariamente l’”avvicinamento della politica ai cittadini” deve avvenire “abbassando” il livello e la portata dei problemi afrontati, bensì afancando ai canali e alle istituzioni rappresentative forme di partecipazione “reale” e effettivamente deliberativa. Considerazioni conclusive In buona sostanza l’Amministrazione uscente, sulla base delle analisi e diagnosi brevemente sintetizzate all’inizio di questo contributo, aveva concentrato il proprio lavoro sul progetto di governo dello sviluppo della città , caratterizzando su questi contenuti il proprio mandato. Non si è resa conto, o non ha valutato a sufficienza, di avere contro quella che Ricolfi 3 chiama la “società  del rischio” (piccoli imprenditori e commercianti, professional ecc.), per ragioni nazionali e per caratteri culturali locali. Nel contempo non ha parlato a sufficienza (lo dicono i dati di flusso elettorale) alla “società  dei garantiti” (lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, pensionati ecc.), che in parte sta diventando o teme di diventare la “società  dell’insicurezza”. Una parte di questa società  è stata indotta a pensare dai numerosi “imprenditori della paura” (politici o giornalisti che siano), presenti anche in città , che il futuro possa essere messo in discussione solo o prevalentemente dagli immigrati e dai lavavetri. A fronte di reati in diminuzione, a Verona continuano ad aumentare le richieste di intervento delle forze dell’ordine e le chiamate al 113: il Questore, in una recente intervista ad un quotidiano locale, dice che i veronesi “hanno sete di sicurezza”. Evidentemente la paura come risorsa chiave di imprenditoria politica, che ha caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica locale, genera i suoi effetti perversi. D’altra parte la società  dell’insicurezza è spaventata e anche infastidita dagli obiettivi “alti”, che possono generare cambiamenti e che raramente producono vantaggi immediati per i suoi membri. E a fronte dell’imprenditoria politica della paura, lo schieramento di Centro sinistra non è riuscito a mettere in campo risorse di consenso altrettanto efficaci. Rimane il problema del rapporto tra governo e consenso, che potremmo declinare in questo modo. A Verona non è stato rieletto l’Assessore che ha portato in porto il Piano di Assetto del Territorio (ex PRG), indispensabile per governare lo sviluppo della città , atteso da quattro mandati e sostanzialmente confermato, malgrado la durissima opposizione a suo tempo esercitata, dall’Amministrazione entrante: per quale ragione un politico che desideri continuare la sua carriera deve dedicare energie a questioni rilevanti per la città , che, se gestite correttamente, assicurano uno scarso ritorno elettorale? E torniamo quindi al titolo di questo contributo: Verona è spinta dai processi reali e dalle opportunità  interne ed esterne a diventare una metropoli europea di medio rango, anche collegandosi con Trento, Brescia, Vicenza, Mantova. L’amministrazione uscente lancia il progetto Rete di città , licenzia il Piano di assetto del Territorio, promuove il Piano strategico Verona 2020. Ma vince le elezioni il candidato che promette di fare gli interessi dei veronesi doc, inseguendo tutte le istanze microlocalistiche. Sarà  quindi molto interessante seguire gli sviluppi futuri delle politiche locali e capire in quale direzione evolverà  il sistema della governance locale. Non sempre l’azione del governo locale, nelle esperienze europee 4, focalizza l’agenda politica sul sostegno alla produzione di beni per la competitività  del territorio, come nelle esperienze dei piani strategici delle città  (Barcellona, Bilbao, Lille, Glasgow, Manchester, Francoforte e altre), per concentrare invece l’attenzione sull’amministrazione “burocratica” del territorio (Brema, Utrecht, Montpellier, Heidelberg). In questo caso la produzione di beni collettivi per la competitività  è lasciata al mercato e all’intervento dei soggetti privati, ma a Verona la scarsa propensione degli attori economici locali a reinvestire sul capitale sociale collettivo rende difcili le previsioni sul futuro.

Si veda Comune di Verona, Bilancio di mandato 2002-2007, Verona, 2007. Elaborazione dati, Tolomeo studi e ricerche. Ricolfi L., Le tre società , Milano, Guerini, 2007. Burroni, L., Modelli di governance nelle città  europee, in Carbognin M., Turri E., Varanini G., Una rete di città . Verona e l’area metropolitana Adige-Garda, Verona, Cierre, 2004.

Verona tra ambizioni metropolitane e microlocalismi2008-09-03T12:11:45+00:00
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