Declino e degrado. Anche a Bologna

Tra qualche dubbio, pensando a come si poteva ragionare per Bologna sui temi difficili del declino e del degrado, mi è venuto di ripensare ad un testo famoso della metà  del secolo scorso su cui, da giovani, molti di noi si sono formati. In quel testo, ormai un classico, esaminando esperienze e vicende della città  americana, Jane Jacobs, fra le altre cose, apriva una riflessione su una questione cruciale che, solo negli ultimi anni, ha investito le nostre città  europee, molto più statiche e conservatrici, molto più ferme nei loro assetti e nella loro cultura. Il tema di quella riflessione era la rapidità  dei processi di trasformazione, di degrado, ma anche di riabilitazione, di sostituzione di interi quartieri, di isolati, di porzioni di città ; fenomeni che, nella realtà  urbana americana, si sviluppavano sotto la spinta dei processi economici, dei fattori etnici, sotto la spinta, anche, di un mercato immobiliare fortemente intrecciato alle dinamiche sociali. Era un mercato che premeva sulle città  senza dare respiro, senza mai fermare i propri dinamismi, senza fermare mai le sue forme di pressione sul sistema urbano. Così, insomma, secondo questa grande studiosa, vive e si trasforma, muore e rinasce l’intera città , nel ricco caleidoscopio della società  americana. Queste dinamiche le lascia intravvedere anche Celine, in Voyage au but de la nuit, subito prima della guerra, quando ci racconta del suo amore per una prostituta nella città  di Detroit, sullo sfondo del paesaggio urbano drammatico della prima città  industriale americana che, già  allora, era attraversata da queste tensioni, durissime e vitali, negli scenari difficili e competitivi dell’economia di mercato. Da noi sembravano temi lontani, ma anche la realtà  urbana europea deve fare i conti oggi con questi problemi, della vita e della morte delle città . Già  da tempo Londra, dove svolti l’angolo di un quartiere vittoriano di assoluto decoro non c’è nulla al mondo che abbia il decoro urbano di un quartiere vittoriano e ti trovi dentro, dall’altra parte della strada, nella confusione e nel degrado di una grande comunità  multietnica, anche ignorando i drammi recenti del terrorismo. Ma anche Berlino non scherza con i suoi contrasti, tra la miseria dei quartieri turchi e i nobili esercizi di bravura dei grandi architetti; e le vicende della banlieue sono un’altra faccia, dura e difficile, della stessa medaglia. Ma c’è anche Milano, con la rivolta improvvisa, sorprendente, della enclave segreta dei cinesi. In questi ultimi casi, forse, non c’è il declino economico, ma sicuramente il degrado, con le dinamiche violente dei processi urbani delle società  in trasformazione. Forse anche da noi, forse anche per Bologna, media città  della provincia italiana, piccola capitale dell’economia periferica, anzi meglio, piccola capitale della periferia, sono arrivati questi momenti e questi appuntamenti difficili. Ma noi siamo un po’ vittime della cultura contadina, peraltro fantastica nei suoi momenti di realismo. Per la cultura contadina, il mondo non cambia mai e la vita è un esercizio di pazienza, per venirne a capo. Così anche Bologna non cambia mai: è una città  dove si vive bene, i bolognesi sono cordiali e ospitali, l’università  è la più antica del mondo, gli industriali sono laboriosi e intelligenti, trovano sempre qualche nicchia speciale lasciata libera dagli Agnelli e dai Pirelli, a volte anche dall’IRI e dall’ENI, e nel nostro piccolo mondo di Bologna si esercitano capacità  innovative e intelligenze rare, dai Ducati ai Regazzoni, dai Calzoni ai Possati, mentre Zanardi un tempo e Dozza più di recente, con i suoi successori, assicurano buoni servizi e, soprattutto, pace sociale. à un miracolo, un modello anzi. Era o è, per qualcuno, il modello emiliano. Non c’è più nulla, o quasi, di tutto questo, ma per qualcuno, anzi per molti, per la maggioranza di noi, è e sarà  sempre così. Il benessere è un diritto, la ricchezza difusa è per sempre, la pace sociale è nel nostro DNA. Siamo sempre industriosi e innovativi, oltre che cordiali e questa è una città  dove si vive bene, anzi dove si vive”meglio”. Sono cose che non occorre conquistarsi ogni giorno, ma piuttosto un dato della situazione. E l’assessore alla mobilità , Zamboni, pensa innanzi tutto Lui alla nostra salute, con le sue multe, i suoi divieti; ci dice quando possiamo o non possiamo andare al cinema la sera, per il nostro bene. Dalla culla alla tomba, come in Svezia, Bologna è un buon ambiente dove vivere e lavorare: basta solo un po’ di pazienza. A me dispiace per i contadini e per i mezzadri che vivono ancora in città  in mezzo a noi, ma non è più così. Certo, non c’è la camorra, non c’è la violenza della banlieue, anche se la morte di Marco Biagi, un caro amico personale, che rimpiango ogni giorno, oltre che un martire della democrazia, e le violenze verbali e forse non solo più verbali, di un anno fa, rispetto alla Madonna di San Luca e al Cardinale, non sono uno scherzo e forse non sono neanche un caso. Poi c’è Sassuolo con i suoi conflitti difficili, ormai esplicitamente di carattere etnico; c’è Reggio Emilia con le tensioni dei suoi migranti, troppo numerosi nella grande ospitalità , tutta studiata a tavolino, di quella città ; e c’è la riviera romagnola con i primi segni non banali e da non sottovalutare di criminalità  di scuola pugliese. Certamente, al di là  di come la pensiamo e dei bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti, su tutto questo c’è materia per riflettere. E’ una riflessione che deve partire da dove è stata aperta saggiamente da Guidalberto Guidi: dal forte processo di deindustrializzazione degli ultimi quindici anni, che ha visto a Bologna l’uscita di scena di molte, non tutte, fra le attività  industriali di punta. Oggi non ci sono più molti dei momenti di eccellenza che hanno saputo segnalare Bologna, a volte anche in Europa e nel mondo. Non sarebbe un problema, se si fosse avviato un fisiologico ricambio anzi, si tratterebbe di un percorso comune nello scenario europeo un processo sostitutivo: le industrie di punta si decentrano, mantenendo a Bologna il cervello delle loro attività ; o anche, le industrie di punta escono di scena, ma vengono sostituite senza traumi o senza pause pericolose da altre attività  eccellenti, da eccellenze del settore del terziario, della ricerca, della logistica, per esempio. La geografia dello sviluppo a grande scala, oggi, è attraversata da questi fenomeni: le città  competono, salgono e scendono nelle classifiche, nelle gerarchie e nel rango, a seconda di come sono in grado di muoversi entro questi scenari di cambiamento competitivo. Come le persone, come le aziende, come le fiere, come gli aeroporti, come le università , pubbliche o private che siano queste strutture, anche le città  competono, anzi sono immerse, come tutti gli altri soggetti, nelle loro competizioni, forse anche più difficili. Che ci piaccia o meno, c’è anche un mercato con una domanda e con un’oferta per le città ; anzi, con una domanda e con un’oferta”di” città . Le città  in Italia sono salite e scese, nell’Ottocento con le ferrovie, nel Novecento con le autostrade; quando sono cambiate le loro gerarchie e le loro opportunità  geografiche. A Bologna tutto questo è certamente un problema almeno secondo questa interpretazione perché non si vedono, anzi, nemmeno si intravvedono, momenti sostitutivi rispetto a un tendenziale declino industriale. La Fiera non va bene. L’Aeroporto non va bene. L’Università  non va bene. Soprattutto, queste strutture non producono più indotto o non producono a sufficienza indotto. Non va bene la Stazione Alta Velocità , che arriverà  fra dieci anni grazie alle cervellotiche richieste che dieci o quindici anni fa ha proposto Anna Donati, quando era Assessore e pensava anche Lei, come oggi Zamboni, di tutelarci. Non si vedono eccellenze imprenditorali emergenti nel mercato dei servizi privati. Delle infrastrutture non parlo, perché mi sono stancato di essere, a Bologna, un esperto di infrastrutture, o forse di essere scambiato per un uccello di malaugurio. Faccio solo l’esempio di quanto servirebbe oggi garantire, rispetto alla marginalità  pericolosa del nostro centro storico, un’accessibilità  innovativa, impensabile altrimenti, come avevamo proposto con il Metro qualche anno fa. Forse non è un declino, ma certo è un ripiegamento grave, certo è una pausa prolungata, pericolosa. E’ un’aria preoccupante che si respira a Bologna. E poi c’è anche il degrado. Forse non è un degrado tremendo, ma certo è almeno una forma crescente di disagio del vivere in città . Ma come? Bologna non è la città  dove si vive bene? Anzi, dove si vive”meglio”? Si dirà , queste riflessioni sono forse attendibili, ma il Comune e la Regione non sono loro a fare lo sviluppo. E la città  può dare quello che ha, le risorse reali di cui dispone, le risorse proprie, che ha nella pancia. à vero. Certamente. Ci mancherebbe altro, lo sviluppo urbano non lo fa lo Stato e nemmeno i suoi organi periferici. Ma è vero che il Comune e la Regione possono fare molto per creare le condizioni ambientali, le condizioni minime di sicurezza necessarie, i punti di appoggio. Questo sì che possono farlo. La Regione la potrebbe smettere di parlare di “sistema fieristico regionale”: in Emilia abbiamo cinque-sei fiere in afanno. La potrebbe smettere di parlare di “sistema aeroportuale regionale”: abbiamo quattro aeroporti zoppicanti; di “sistema ferroviario regionale”: abbiamo una rete FER che ragiona paradossalmente per logiche patrimoniali, invece che in rapporto a parametri di efficacia e di economicità  di esercizio, e non abbiamo nemmeno in programma un autentico sistema ferroviario nel bacino metropolitano. La potrebbe smettere di parlare di Bologna in questo modo, ma dovrebbe parlare di Bologna e delle sue polarità  eccellenti, da rendere competitive e mettere al servizio del sistema regionale. L’Assessore Peri, sarebbe meglio se non avesse dirottato le risorse e i quattrini del Metrò di Bologna a favore del Metrò di Parma, città  dove poi si è candidato Sindaco. Quest’ultimo mi sembra un esempio classico, lo ricordo non troppo per scherzo, di policentrismo praticato. Sarebbe anche meglio se le priorità  regionali non fossero la Cispadana, nella bassa modenese e reggiana, o la E55 in Romagna, ma la tangenziale di Bologna su cui la città  sta morendo di fatica da molti, troppi anni. E il Comune di Bologna farebbe meglio a rivendicare con forza un proprio ruolo primario nel sistema regionale. Così come farebbe bene a sviluppare un vero piano strategico per lo sviluppo della città , capace di assecondare e di accompagnare le sue eccellenze, piuttosto che un piano strutturale quello presentato nel corso del 2007 ben levigato, patinato ma privo di forza. Anzi, privo di forze, perché lì mancano tutti gli altri, oltre al Comune che fa il piano nella sua antica logica dirigistica. Sarebbe meglio, prima di far moschee politicamente corrette, “aperte alla città ” la moschea di AL CAAB, la chiama Ugo Baldini disporre di un proprio percorso di politiche per l’immigrazione. E, infine, sarebbe meglio preoccuparsi davvero del degrado e del disagio urbano, che rappresenta l’inizio e la fine di tutto, la causa e l’effetto di tutto quello che ho sommariamente ricordato prima. E sarebbe meglio pensare diversamente alla disponibilità  delle aree militari, come sempre afdata alle formule troppo rafnate, astruse e fuori mercato, che ci hanno proposto i Visco e i Bersani: le caserme sono da mettere sul mercato, come una grande opportunità  di sviluppo. Qualche giorno fa Riccomini ci ricordava bontà  sua! che forse non tutte devono diventare musei: 350.000 metri quadri di musei! E Cervellati ci ricordava, a sua volta, che devono essere tutte destinate alle case di chi la casa non ha: 350.000 metri quadri di case per i poveri. Queste sono grandi opportunità  di mercato per lo sviluppo della città  innanzitutto e, dentro quel percorso, ci sono anche i musei e le case per chi ne ha bisogno. Poi, con i suoi musei scuserete questa battuta con i MamBO, molti hanno afermato che sembra già  di essere a Parigi. E a me è venuto di pensare che “se Bologna avesse lo mare, fosse una piccola Bari”. Il degrado di Bologna non è una banalità  o un luogo comune. La proletarizzazione degli studenti dell’università  di massa non è uno scherzo, soprattutto quando mostra di potersi saldare con la marginalità  sociale e con la marginalità  etnica; soprattutto quando non appare lontana ormai dal ribellismo violento, estranea alle regole non scritte della convivenza ed anche della democrazia, per un centro storico come quello di Bologna che è, o sarebbe, uno dei luoghi più belli e importanti d’Italia e d’Europa. Una grande risorsa! C’è un sintomo nuovo della malattia per questo centro storico, che giudico forse drammatico: il calo dei valori immobiliari, il declino della domanda immobiliare, divenuta visibile nell’ultimo anno. Questo è un fenomeno pesante, che si è verificato a Bologna per l’ultima volta alla fine dell’Ottocento, quando la borghesia è uscita e si è trasferita nei quartieri-giardino di Murri e di Saragozza. Ma era un’altra epoca storica e la città  era del tutto diversa, in fase ascendente. Bisogna saper ragionare su questo, perchè il mercato, come la borsa, non sbaglia. Il centro non va chiuso; al contrario va aperto in forme innovative per la sua salvezza, e gli studenti devono essere incoraggiati a vivere a Bologna come bolognesi e non come marginali disperati. Bisogna saper investire sugli studenti e sui laureati. Bisogna attenuare la loro presenza nel centro e farli vivere accanto alle nuove sedi universitarie; quelle sedi che “un bel dì vedremo”, io spero, nelle nuove localizzazioni del Lazzaretto e del Navile. E bisogna riportare i cittadini bolognesi a vivere in città  e i commercianti bolognesi a lavorare in città , riconoscendo un’alta dignità  e un ruolo”esterno” prezioso, a questo lavoro. Lo so bene, queste sono prospettive difficili, diversificate, variegate, ma tutte convergenti, da costruire e ricostruire per creare le condizioni necessarie e i fattori strutturali di un rilancio più ampio. Occorre saper lavorare a questo disegno con pazienza; occorre saper governare ancora Bologna in modo nuovo e in modo antico. In modo antico con la pazienza e la tenacia che avevano i riformisti di un tempo; in modo nuovo, perché bisogna anche saper guardare avanti con la capacità  di introdurre, dove serve e quando serve, atteggiamenti diversi e anche radicalmente diversi.