Globalizzazione e deficit di democrazia rappresentativa: proposta”forte” per l’innovazione amministrativa
Nuovi Problemi, nuove complessità : le esternalità della globalizzazione. Le città afrontano nuovi problemi, più complessi, più articolati e più difficili da risolvere con le risposte tradizionali. Numerosi problemi che le istituzioni si trovano a dover afrontare infatti non sono il frutto di politiche locali più o meno adeguate, quanto di fenomeni che si verificano a livello globale, ma che producono ricadute locali, senza peraltro che a questo livello esistano i margini per progettare e realizzare autonomamente politiche capaci di afrontarle.1 I processi di globalizzazione hanno avuto conseguenze rilevanti sul piano economico, della trasformazione della struttura d’impresa, dei modelli di organizzazione del lavoro e della stessa struttura delle classi sociali 2. Ma non sono solamente i fenomeni economici a determinare a livello globale queste conseguenze locali. Stiamo assistendo a vere e proprie “ristrutturazioni demografiche” 3 che mutano il volto di città e regioni. In primo luogo i processi migratori che pongono nuove domande sociali di cittadinanza multiculturale o interculturale. In secondo luogo la crescita del livello di istruzione e l’invecchiamento della popolazione conseguente ad una maggiore disponibilità e qualità dei servizi educativi, sociali e sanitari. Inoltre si afermano una progressiva individualizzazione e razionalizzazione dei valori, pur nella loro sostanziale persistenza, nuove sensibilità e modelli culturali più orientati ad una politica delle diferenze 4. Sono in atto nuove paure: la paura di perdere una condizione faticosamente conseguita, il timore di scivolare indietro in una scala gerarchica che ha diluito le vecchie classi in un flusso continuo in cui la competizione è per non scivolare in fondo alla graduatoria (la sindrome del penultimo), mentre le distanze tra i primi e gli ultimi si allungano sempre più. Emergono così le nuove povertà fatte di lavoratori, lavoratori intermittenti, disoccupati 5. La famiglia, caposaldo del sistema occupazionale 6 e del welfare italiano cambia la sua conformazione tradizionale e contribuisce a sfaldare le certezze conosciute nella società industriale 7. Ma più in generale è l’intero sistema delle relazioni che tende a mutare: i legami più stretti e che presuppongono impegni vengono vissuti come vincoli troppo cogenti 8; contemporaneamente l’assenza di legami solidi diviene un elemento di crisi per la coesione sociale.9 L’aumento della disponibilità tecnologica coincide per la prima volta nella storia con un incremento della diseguaglianza sociale e dei differenziali salariali. Attorno a questa incertezza cresce anche la voglia di legami più saldi, di certezze maggiori che non di rado si esprime in una “voglia di comunità ” dove la dimensione della similitudine pone freni alla paura dell’altro, del diverso, del nuovo che può far scivolare verso l’ultimo posto. Questo desiderio di noto e conosciuto afanca a meccanismi di solidarietà tra simili, modelli di esclusione e chiusura che sfociano nella riproduzione di forme ossessive di conservazione, controllo e autoesclusione dai processi di integrazione (i quartieri ghetto per ricchi) e conducono a bloccare le prospettive di sviluppo e innovazione 10. Nasce così un eccesso di domanda pubblica: i cittadini sembrano preferire il pubblico su tutte le politiche e in tutte le fasi del processo di policy (di programmazione, erogazione, controllo) 11. Le conseguenze sono visibili. In primo luogo il sistema delle competenze amministrative ha poco rilievo rispetto ai soggetti chiamati ad intervenire. Il sindaco o il presidente, forte (o in funzione) della legittimazione popolare dell’elezione diretta, è chiamato ad occuparsi dei problemi della comunità amministrata al di là delle specifiche competenze assegnate al Comune e alla sua attenzione vengono posti problemi nuovi, più complessi e più urgenti. Le politiche afrontate dunque sono ben più numerose che in precedenza e spaziano ben oltre gli strumenti attuativi disponibili e gli ambiti stabiliti dal riparto delle competenze amministrative. Al contempo la quantità di risorse non è in crescita proporzionale. Peraltro la discutibile socializzazione delle esternalità della globalizzazione pone alcune questioni fondamentali su chi dovrebbe sostenere tali costi e sui concetti di redistribuzione della ricchezza generata dagli stessi processi di globalizzazione. Difficile è infatti sostenere che la divaricazione della forbice tra i primi e gli ultimi non sia anche il frutto del fatto che le indispensabili misure di welfare necessarie a governare gli impatti, sono attualmente a carico della fiscalità generale e non prioritariamente di chi da questi fenomeni trae maggiore ricchezza (in una prospettiva redistributiva e non certamente “antisviluppista”). Quando decidere è più difficile: il deficit della democrazia rappresentativa. L’incepparsi dei percorsi decisionali e la crisi delle forme tradizionali di rappresentanza rende più complesso afrontare questi nuovi problemi collettivi. I segnali sono la difficoltà ad esercitare un ruolo di mediazione degli interessi particolari e del conflitto sociale da parte dei partiti in un percorso di costruzione dell’interesse generale; l’emergere di nuove forme di rappresentanza, non di natura generale, ma particolaristica; il dialogo diretto tra sindaci o presidenti e nuove forme di rappresentanza con una sostanziale marginalizzazione delle assemblee istituzionali degli eletti (consiglio comunale, circoscrizioni) nel processo decisionale 12. Emerge così la crisi del tradizionale percorso di costruzione delle decisioni: società -partitiassemblea degli eletti-esecutivo. In questa prospettiva il meccanismo della elezione diretta del Sindaco e dei Presidenti e il raforzamento dei poteri dell’esecutivo, se da un lato hanno contribuito a rendere più stabili i governi locali e a rinsaldare il rapporto tra società e istituzioni accorciandone le distanze, dall’altra hanno inevitabilmente avuto la conseguenza di indebolire i corpi intermedi di mediazione sociale, depotenziandone il ruolo. Così se da un lato le decisioni sono apparse più immediate, dall’altro queste hanno pagato prezzi elevati in termini di stabilità del consenso su cui poggiavano. L’ampio ricorso a formule nuove di “democrazia deliberativa” o a “processi decisionali inclusivi”, appare dunque come una necessità di ritrovare meccanismi decisionali più articolati e capaci di ricostruire un terreno di mediazione sociale, indispensabile per la legittimazione e la praticabilità delle decisioni 13. Alla funzione di mediazione svolta dai partiti si va dunque a sostituire una nuova formula di costruzione del consenso. Non avviene, come invece era stato ipotizzato in una sorta di “illusione decisionista”, uno snellimento delle decisioni in funzione di una maggiore tempestività delle politiche pubbliche, ma una sostituzione di luoghi e soggetti del processo decisionale stesso. Ai percorsi della rappresentanza generale, propri del sistema dei partiti si sovrappongono nuovi soggetti portatori di interessi specifici e alle sedi istituzionali del dibattito (consigli) si sostituiscono sedi non riconosciute e definite senza processi formali di individuazione (tavoli, cabine di regia, piani strategici, comitati, ecc.). Tale questione si aferma con evidenza e conduce a rapporti tesi e sempre più controversi tra le Giunte e i Consigli che rivendicano un proprio ruolo e una maggiore centralità 14. Emergono così conflitti istituzionali e questioni di democrazia: perchè le decisioni avvengono fuori dalle rappresentanze elette? chi è chiamato a partecipare alle decisioni? Sulla base di quale democratico processo di legittimazione? Chi partecipa a tali processi in che modo viene poi chiamato a rispondere delle scelte assunte? Rispetto a queste formule appare sempre più evidente (e se ne comprendono bene le ragioni) come le rappresentanze degli interessi più forti esprimano un gradimento maggiore rispetto agli altri soggetti coinvolti che, non di rado, si sentono chiamati a partecipare, in tal modo legittimandole, a decisioni rispetto alle quali solo formalmente possono influire 15. Amministrazioni locali orfane: l’istituzionalizzazione delle funzioni di governo del consenso e di integrazione delle risorse di policy. La costruzione del consenso nelle decisioni necessita un nuovo ruolo per le amministrazioni. L’azione di mediazione e ricomposizione dell’interesse generale richiede uno sforzo di individuazione e ascolto dell’articolazione sociale e un lavoro di cucitura e saldatura delle istanze in gioco per assicurare sviluppo, da un lato, e coesione, dall’altro. Questa azione, svolta in precedenza dai partiti, oggi fatica a svilupparsi con trame chiare e facilmente decifrabili 16. In sostanza avere ridotto il ruolo dei partiti sotto il profilo decisionale a favore delle rappresentanze direttamente elette, ha spostato la responsabilità della mediazione sulle rappresentanze stesse, le quali però, al di là delle proprie risorse personali, non possono contare su organizzazioni professionalmente dedicate alla ricomposizione degli interessi 17. Si apre così uno spazio strategico fondamentale per il benessere delle comunità non presidiato e la cui rilevanza pregiudica il successo dei processi deliberativi di natura collettiva. Se le amministrazioni intendono progettare e realizzare politiche pubbliche efficaci non possono ignorare questa esigenza. Si tratta dunque di assumere questo carico di responsabilità per una funzione sconosciuta storicamente alle amministrazioni ma senza la quale si inceppano le scelte pubbliche. La domanda di funzionamento dei beni comuni da parte dei cittadini pone l’accento sull’esigenza da parte della rappresentanza eletta di assicurare un forte governo delle interdipendenze. In questa prospettiva possono essere osservate alcune tendenze ormai consolidate. In primo luogo è sempre più frequente il ricorso a formule di coordinamento sociale che coinvolgono attori istituzionali di diversa natura 18 (privato, pubblico, associazioni, etc) come ad esempio i piani strategici. Molte iniziative locali di innovazione amministrativa sono orientate proprio verso questa direzione: la maggior parte delle idee strategiche perseguono finalità di integrazione, puntano a costruire rapporti più saldi tra gli attori del territorio e a governare le interdipendenze 19. In questo quadro la dimensione della sussidiarietà orizzontale diviene ovviamente non solo un principio costituzionale, ma un’esigenza strategica per pianificare l’azione collettiva della comunità , individuare gli ambiti di intervento pubblico diretto e stabilire i sistemi di coordinamento tra gli attori, ad esempio in termini di 20 garanzie di efficacia dell’azione . In secondo luogo emerge la propensione ad integrare le politiche settoriali e i diversi strumenti di attuazione rispetto a problemi non aggredibili solamente da una prospettiva parziale. Si richiede la congiunta progettazione di interventi di natura economica, ambientale e sociale e nuove forme di pianificazione urbana. Peraltro è proprio la difficoltà di operare in questa prospettiva e la tradizionale frammentazione organizzativa delle istituzioni chiamate ad intervenire a creare spesso difficoltà nei processi 21 concreti o a produrre eterogenesi dei fini . In terzo luogo si osserva l’intervento del governo locale in ambiti fino ad ora sconosciuti. E’ questo ad esempio il caso dei Comuni che si pongono in una prospettiva di governo dei legami tra università e sistema imprenditoriale per assicurare coerenza tra sapere e sviluppo nel territorio. Proprio l’esigenza di essere punto di riferimento e integrazione tra ambiti tra loro interdipendenti spinge i Sindaci e i Presidenti a farsi carico di problemi e responsabilità fondamentali per il benessere della comunità , anche se in teoria esulano dalle strette competenze amministrative del Comune, della Provincia o della Regione. Per un’innovazione istituzionale “forte”: superare i dicasteri e ridurre di metà il numero degli assessori. In sintesi:
- I problemi a livello locale diventano più complessi. Per afrontare questi problemi è necessario integrare il sistema delle risorse (gli strumenti di policy, le policy tra loro, l’azione e le risorse economiche di investimento nella disponibilità dei diversi attori).
- Assumere decisioni collettive e dunque coordinare l’azione degli attori diventa sempre più importante ma anche più difficile e complesso.
Si crea in questo modo un classico circolo vizioso nel quale tanto è più rilevante e necessario il coordinamento dell’azione collettiva per afrontare problemi complessi, tanto più è difficile realizzare e dare concretezza a tale esigenza. Si crea così il rischio di mettere in campo condizioni
di vera e propria paralisi delle comunità rispetto alla capacità di risolvere i problemi collettivi. Le difficoltà di cui sopra richiedono sostanzialmente una capacità di riposizionamento strategico del ruolo delle amministrazioni che si concretizza in alcune competenze fondamentali:
- La capacità di selezionare ed esaminare i problemi collettivi in modo puntale e supportato dal punto di vista dei sistemi informativi di supporto ai processi decisionali.
- La capacità di leggere in modo integrato le interdipendenze e afrontare in modo sistemico le soluzioni, coordinando l’azione e rendendo sinergici gli interventi, valutando gli impatti nel medio lungo periodo e sull’insieme delle variabili considerate.
- La capacità di focalizzare le leve chiave (poche) e investire in modo consistente su queste non disperdendo le risorse scarse in una pluralità di iniziative con poca possibilità di impatto rispetto alla soluzione dei problemi.
- La capacità di costruire il consenso intorno alla lettura dei problemi e alle scelte di intervento e di allocazione delle risorse, favorendo la partecipazione e agevolando la fluidità dei processi decisionali.
Tali competenze pongono un problema rilevante rispetto alle caratteristiche della leadership di chi gestisce e governa i processi decisionali aumentando l’esigenza di “tecnicizzare la politicità ” degli interventi. In questa sorta di apparente ossimoro è contenuta la maggiore complessità dei processi di innovazione attualmente in corso. Da un lato infatti occorre più capacità di gestione delle politiche, ma dall’altro per conseguire tale scopo occorre più “tecnica” e non più “politica”. Le ragioni sono di duplice natura:
- Le competenze segnalate sono sostanzialmente competenze di tipo manageriale (si direbbe nelle scienze organizzative o di policy analysis nelle scienze della politica) e
tali competenze non possono essere nella disponibilità di chi non esercita professionalmente (per definizione istituzionale) il mestiere di elaborare e governare politiche pubbliche. Sono competenze che si maturano con la disciplina scientifica, con l’esperienza gestionale e con un percorso di crescita e sviluppo professionale.
- La condizione degli amministratori negli enti locali non ha caratteristiche di professionalità , sia per l’assenza di percorsi professionali in tal senso, sia per scelta istituzionale. Inoltre l’emergere di una personalizzazione della politica, in funzione anche del nuovo ruolo esercitato dai media, richiede la visibilità individuale degli stessi amministratori e dei partiti che questi rappresentano e stimolano la polverizzazione delle azioni di policy e la loro discontinuità rispetto al passato. Questa esigenza di marketing politico rende di fatto incompatibile la necessità di integrazione e cooperazione e ancor più quella di focalizzazione delle scelte su poche azioni visibili e ad alto livello di impatto nella soluzione dei problemi. In sostanza l’esigenza di visibilità individuale e di competizione nel mercato politico-elettorale diviene contraddittoria con quella di cooperazione e selezione degli investimenti e ancor più con quella della continuità degli investimenti istituzionali nel medio – lungo periodo.
A questa contraddizione a partire dagli anni ‘90 ha cercato di porre rimedio tutta la produzione normativa (avviata dal dlgs 29/93) tesa a enfatizzare la separazione tra politica e amministrazione, ma con risultati non sempre all’altezza delle aspettative. D’altro canto le ragioni che in quegli anni avevano condotto a quella scelta non risiedevano tanto nelle considerazioni sopra esposte (l’esigenza di adeguare le competenze dei processi di policy making) quanto alla necessità di dare risposte concrete alle patologie nell’esercizio della funzione politica emerse nel corso delle indagini giudiziarie condotte negli anni immediatamente precedenti all’emanazione della norma (tangentopoli). Di conseguenza più che sul cambiamento dei ruoli organizzativi delle funzioni politiche e tecniche, l’attenzione era puntata prevalentemente sulle responsabilità amministrative delle funzioni e sui poteri ad esse assegnati. In questa prospettiva non è stata modificata la logica dicasteriale dell’assegnazione delle deleghe, quanto la potestà di organizzazione del lavoro e del potere di rappresentanza dell’amministrazione nell’assunzione degli impegni verso l’esterno. E’ rimasta invece immutata la sovrapposizione degli ambiti di lavoro tra politica e burocrazia, mantenendo inalterata la compresenza della funzione assessorile e dirigenziale rispetto agli stessi contenuti di lavoro (con deleghe spesso coincidenti all’articolazione organizzativa della struttura amministrativa). La stessa possibilità di mantenere elevato il numero degli assessori ha contribuito in tal senso alla parcellizzazione delle deleghe e alla persistenza del modello per dicasteri così come tradizionalmente realizzato precedentemente alla modifica normativa del ’93. Peraltro l’attribuzione di nuovi ruoli formali alla funzione dirigenziale nel corso degli anni ‘90, unitamente alla privatizzazione del rapporto di lavoro, ha contribuito a modificare coerentemente i diferenziali retributivi tra funzioni politiche e dirigenziali a netto favore di queste ultime. La scelta è stata quella di valorizzare la funzione dirigenziale e ricondurre la funzione politica nell’ambito dell’esercizio di un presidio di delega (collaborazione) del sindaco. In questo senso però, la tradizione amministrativa e il peso della storia (path dependence), unitamente alla persistenza dell’assetto organizzativo per dicasteri, non ha contribuito a realizzare il disegno proposto dalla norma, né tanto meno modificato in positivo la qualità del personale politico. Le esigenze sopra riportate richiedono invece un ripensamento non solo dei poteri amministrativi, ma dello stesso modello istituzionale complessivo di esercizio delle responsabilità . La maggiore necessità di integrazione tra politiche in una visione sistemica degli interventi, l’esigenza di introdurre tecniche complesse di negoziazione e costruzione del consenso, la necessità di non polverizzare l’azione e di progettarla nel lungo periodo, richiedono l’esclusione della politica dal processo stesso di costruzione e gestione delle politiche (lettura dei sistemi informativi, elaborazione e valutazione di fattibilità delle alternative, attuazione dei processi, etc.) per concentrarsi invece sulle decisioni chiave di sistema e ridurre in tal modo la presenza di incentivi negativi al coordinamento e focalizzazione dell’azione collettiva. E’ dunque il superamento dello stesso modello per dicasteri la vera questione che occorre afrontare e l’introduzione di una logica più vicina ai modelli di funzionamento dei consigli di amministrazione delle aziende di public utilities o delle agenzie. Non è infatti ipotizzabile né che le competenze necessarie siano esercitate da personale politico non professionale, né che si possa riproporre un modello istituzionale centrato sulla professionalizzazione del personale politico. La possibilità al contrario di concentrare l’attività decisionale delle giunte nella formulazione delle decisioni strategiche, riducendo a meno della metà la presenza di assessori e al contempo adeguando il compenso retributivo su valori più elevati, potrebbe rappresentare una soluzione concreta tesa da un lato a concentrare sulla responsabilità manageriale la tecnicizzazione dei processi di policy e dall’altro a contenere l’inevitabile processo centrifugo di personalizzazione dell’azione assessorile incompatibile con l’esigenza di integrazione delle politiche e di focalizzazione degli strumenti. La necessità di ridurre il numero degli assessori e concentrare la loro attività sulle funzioni decisionali non è dunque tanto determinata dall’esigenza di contenimento dei costi della politica, quanto dal’obiettivo di rendere più efficace e professionale l’azione dell’amministrazione pubblica. L’adeguamento retributivo, la riduzione del numero, il minor impegno nella gestione quotidiana e il maggior impegno nella lettura dei problemi complessi e nella formulazione delle decisioni strategiche di sistema potrebbe anche permettere un nuovo e maggiore slancio alla funzione politica, riempiendo anche di nuove opportunità i processi di selezione dei soggetti chiamati a svolgere tali funzioni così importanti. In questa prospettiva è del tutto evidente che si aprono riflessioni ulteriori rispetto alle ricadute di sistema: l’esigenza di favorire una dirigenza pubblica capace di agire concretamente le competenze necessarie, i meccanismi di reclutamento e selezione della dirigenza, i modelli organizzativi, le procedure di scambio informativo tra giunta e dirigenza, etc. Ma questi sono aspetti conseguenti e da definire a valle di una scelta forte capace di dare nuove opportunità ad amministrazioni locali in transizione, tra globalizzazione e deficit della democrazia rappresentativa.
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